Fino a tutti gli anni ottanta, praticamente non sapevamo cosa volesse dire giocarsi il proprio destino ai calci di rigore. Praticamente, tuta la nostra esperienza in materia si riassumeva nella visione di un vecchio film di Wim Wenders, Die Angst des Tormanns beim Elfmeter, La paura del portiere prima del calcio di rigore.
La crisi esistenziale descritta dal cineasta tedesco ai suoi esordi era niente rispetto a quella che sarebbe diventata la nostra collettiva di calciofili, nei vent’anni successivi. Cominciò la Roma, nel 1984, in finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool. La miglior Roma di sempre (non ce ne voglia Francesco Totti) contro i Reds, la squadra più leggendaria del calcio inglese prima che gli hooligans costringessero a metterlo in castigo.
Al Circo Massimo tutto era pronto per il bis della festa scudetto dell’anno prima, Venditti compreso. Ma i giallorossi quella notte ebbero se stessi come principali avversari, malgrado giocassero in casa e giocassero bene come non mai. Troppe gambe tremarono quella notte all’Olimpico, soprattutto quelle che non ti aspettavi. I reds ne sbagliarono uno solo, il primo con Nicol. I romanisti ne sbagliarono due, con Bruno Conti e Ciccio Graziani, rendendo superfluo l’ultimo, che sarebbe stato affidato probabilmente a Paulo Roberto Falcao. La notte del 30 maggio 1984 al Circo Massimo non cantò e non ballò nessuno. Il Liverpool avrebbe proseguito la sua marcia trionfale fino al maledetto Heysel, l’anno dopo. La Roma ci avrebbe messo 34 anni prima di ritrovare i rossi inglesi, in una semifinale di Champion’s altrettanto sfortunata ma conclusa quella volta nei tempi supplementari.
Ai mondiali messicani del 1986 avevamo poi assistito al primo incontro importante tra Nazionali deciso dai calci di rigore. Francia – Brasile era finita 4-3 dopo i tiri dal dischetto, una serie in cui avevano spiccato gli errori dei migliori, Socrates da una parte e Platini dall’altra. I rigori sembravano proprio una brutta maniera di concludere, e noi italiani allora ci consolavamo di aver battuto lo stesso Brasile nei tempi regolamentari quattro anni prima in Spagna, senza bisogno di questa roulette russa.
La nazionale azzurra, sia nella gestione Bearzot che in quella Vicini, sembrava risparmiata da un simile psicodramma, riuscendo sempre a conquistare i propri risultati nei tempi regolamentari. L’unica eccezione era stata l’Under 21 allenata proprio da Vicini, che all’ultima e decisiva partita per l’assegnazione del Campionato d’Europa di categoria aveva ceduto dopo i tiri dal dischetto ai pari età della Spagna di Luisito Suarez. 2-1 per noi a Roma, 2-1 per loro a Valladolid, dal dischetto alla Spagna ne bastarono tre, quanti ne aveva sbagliati l’Italia a cominciare dal principe Giannini, quello che di solito non li sbagliava mai.
La sorte aveva mandato un avvertimento agli azzurri, che a Italia 90 sotto la guida di Vicini sembravano destinati a vincere il titolo mondiale procedendo come un rullo compressore. In semifinale, l’Argentina riuscì a resistere pareggiando con Caniggia il gol iniziale di Schillaci. Vicini tenne in campo un menomato Vialli troppo a lungo, e rimandò troppo a lungo l’entrata in campo del talento emergente di Roberto Baggio. Si andò ai rigori, ed in uno stadio San Paolo di Napoli ammutolito dalla tensione cominciò lo psicodramma azzurro che avrebbe da allora tenuto banco sui palcoscenici di tutto il mondo.
I rigoristi italiani erano privi di Vialli, di Schillaci semiinfortunato e di Ferri, che finì la partita con i crampi. Andarono sul dischetto per l’Italia Franco Baresi, Baggio e De Agostini, pareggiando i tiri degli argentini. Al quarto turno Roberto Donadoni mostrò visibilmente tutta l’incertezza che lo attanagliava, telefonando un tiro che era più un passaggio a Goycoechea, il portiere argentino. Maradona non perdonò, ed a quel punto per salvare la patria andò sul dischetto Aldo Serena, uno che in campionato non sbagliava mai. Quella volta sbagliò, e l’Italia perse il primo di una serie di tre mondiali in cui era data per favorita, e senza mai aver subito sconfitte.
Da allora, gli azzurri hanno giocato per lungo tempo temendo di finire ai rigori. Quattro anni dopo, negli USA, la squadra allenata da Arrigo Sacchi, il profeta del nuovo calcio totale italo-olandese, si ridusse per buona parte delle sue partite a fare quello che l’Argentina aveva fatto quattro anni prima da noi: a resistere, a stringere i denti sperando nella prodezza del numero 10, che per noi si chiamava ancora Roberto Baggio. Il quale rispose presente, portando sulle sue spalle l’Italia alla finale con il Brasile. A Pasadena, il 17 luglio 1994, nel mezzogiorno di fuoco californiano che rese quella finale una sauna finlandese, si affrontarono l’Italia priva di una delle due gambe di Baggio (purtroppo quella con cui calciava) ed il Brasile più brutto a vedersi della storia, anch’esso appesantito da un Romario a mezzo servizio. Inevitabile lo 0-0 che riportò le due squadre sul dischetto del rigore ed il titolo mondiale ad essere assegnato per la seconda volta consecutiva dagli undici metri.
Stavolta, Marcio Santos ci illuse a proposito di un esito diverso calciando fuori il primo rigore verdeoro. Ma tra gli azzurri, anche quel giorno erano le gambe migliori a tremare. Pareggiò l’errore Franco Baresi, che poi scoppiò in un pianto a dirotto. I brasiliani non sbagliarono più, per noi invece toccò ancora a Massaro di essere neutralizzato dal portiere Taffarel. Sul 3-2 di Dunga, toccò all’Enrico Toti della situazione andare a lanciare l’ultima stampella alla disperata. Roberto Baggio calciò alto, e mentre prendeva il via il più immeritato dei carnevali brasiliani chissà se non si interrogò a proposito del suo karma. Italia al secondo posto malgrado una sola sconfitta questa volta, ma al primo turno con l’Eire, quando non contava.
Nel 1996 fu un rigore di Zola sbagliato contro la Germania, ma nei novanta minuti, a rispedirci a casa anzitempo dall’europeo inglese. Nel 1998 ci presentavamo ancora in terra di Francia da favoriti, malgrado il buon Cesare Maldini soffrisse da CT l’abbondanza di talenti a cui affidare la maglia numero 10. Partito con Del Piero e poco fiducioso di Zola, Maldini riscoprì Baggio troppo tardi, ripetendo l’errore di Vicini. E per poco Baggio non lo ripagò a Saint Denis nei quarti contro la Francia padrona di casa, mancando di un soffio il golden goal che avrebbe ripetuto per noi lo storico risultato del 1938. Andammo ai rigori, Roberto Baggio – cancellando finalmente l’incubo che lo perseguitava da Pasadena – pareggiò Zinedine Zidane, anche Albertini e Lizarazu si pareggiarono, ma nell’errore. Costacurta, Trezeguet, Vieri, Henry, al quinto turno sembrava una serie infinita come quella che ci aveva negato il terzo posto di consolazione contro la Cecoslovacchia a Roma nel 1980, all’Europeo che avevamo perso grazie al Calcioscommesse ed alla squalifica di Pablito Rossi. Ma lo psicodramma era sempre sospeso sulle teste degli azzurri, e quella volta toccò al sergente Gigi Di Biagio materializzarlo. Ancora un rigore calciato alto sopra la traversa, ancora l’Italia che andava a casa pur senza sconfitte, perché subito dopo Laurent Blanc non perdonò.
Alla fine di quei maledetti anni novanta in cui avevamo giocato meglio di tutti ma avevamo tirato dal dischetto peggio di tutti, eravamo con il morale a pezzi. Quando partimmo per Belgiolanda, la truppa affidata alle mani del nuovo CT Dino Zoff era estratta da una promettente nuova generazione, che non aveva vissuto tra l’altro notti tragicamente magiche come quelle di Napoli, Pasadena e Parigi. Che giocava spensierata assecondando gli estri del nuovo prodigio con il numero dieci, Francesco Totti, e che fu ripagata con gli interessi dal destino per le passate sventure il giorno 29 giugno dell’anno di grazia 2000 in quel di Amsterdam. Dove gli azzurri rischiarono una dèbacle clamorosa venendo travolti dagli olandesi padroni di casa che li costrinsero in dieci, li schiacciarono nella loro metà campo ed ebbero tante di quelle occasioni per segnare da aver perso il conto. Compresi due rigori nei tempi regolamentari che il portiere Toldo neutralizzò o costrinse gli orange a sbagliare. Per la quarta volta gli azzurri si presentavano alla lotteria dei tiri dagli undici metri. Ma stavolta era un miracolo, un traguardo di cui essere già più che contenti. Solo che la sorte non aveva ancora finito di risarcirci. Dal dischetto, come già a Saint Denis due anni prima, cominciò chi aveva sbagliato la volta precedente. Anche Gigi Di Biagio pose fine ai suoi incubi segnando il primo della serie di tre con cui l’Italia si guadagnò la finale. Gli olandesi erano stremati e scorati, e ne misero dentro uno solo con Kluivert, dopo il celeberrimo cucchiaio di Totti. La firma del predestinato.
Quell’europeo lo perdemmo per un golden goal francese, non per i calci di rigore. La serie dei rimpianti comunque si allungava, e avrebbe continuato a farlo dopo che la fortissima Nazionale di Trapattoni sarebbe stata estromessa dal mondiale nippo-coreano del 2002 grazie al golden gol della Corea del Sud ed all’arbitraggio sfacciatamente casalingo di Byron Moreno, e poi dall’europeo portoghese del 2004 dal biscotto scandinavo.
Nel 2006, in Germania, avevamo da pensare ad altre cose piuttosto che alla sorte ed a come si sarebbe comportata nei nostri confronti quella volta. I ragazzi di Marcello Lippi si chiusero in silenzio stampa come avevano fatto quelli di Enzo Bearzot 24 anni prima, e come loro interruppero tale silenzio soltanto per commentare la loro vittoria finale. Una Francia con cui avevamo troppi conti in sospeso e che si suicidò di fatto con la testata di Zidane a Materazzi, ci restituì il maltolto di Parigi e di Bruxelles con il rigore sbagliato al secondo turno da David Trezeguet, che quella notte a Berlino passò da essere la nostra bestia nera a benemerito della repubblica italiana.
Campioni del mondo quattro volte, gridò il telecronista al cielo sopra Berlino. Del film d’esordio di Wenders nessuno si ricordava più, ed i nostri portieri avevano smesso ormai di aver paura prima di un calcio di rigore. Buffon e Toldo avevano risposto spavaldi ai celebrati campioni d’oltralpe che si erano presentati loro davanti beffardi per trafiggerci negli anni duemila così come era successo negli anni novanta. Ma stavolta in ginocchio a piangere c’erano finiti gli altri.
Pirlo, Wiltord, Materazzi e Trezeguet, che sbagliò. Sul 2-1, bisognava soltanto arrivare in fondo. Ognuno tenne il servizio, De Rossi, Abidal, Del Piero e Sagnol. Quando andò sul dischetto Fabio Grosso, sul 4-4 giocava un matchball epocale, su quel dischetto con lui c’erano tutti, da Bruno Conti in poi. E su quel prato dell’Olympiastadion c’erano almeno due generazioni di calciatori e tifosi italiani a correre con i ragazzi di Marcello Lippi, dopo che il tiro di Grosso andò dentro.
La storia non finì a Berlino. Due anni dopo, a Vienna, Italia-Spagna era un passaggio di consegne tra i vincitori del mondiale del 2006 e quelli del mondiale 2010. Il passaggio avvenne, manco a dirlo, sul dischetto dei rigori. Fu uno degli eroi di Germania a sbagliare in Austria, De Rossi, seguito da Di Natale. Iker Casillas sugli scudi e Spagna all’avvio di un ciclo, mentre l’Italia chiudeva il suo.
Ne poteva aprire un altro in Ucraina, quattro anni dopo. L’Inghilterra si dimostrò nuovamente l’unico paese al mondo che con i rigori se la diceva peggio dell’Italia, né sbagliò tre contro uno solo degli azzurri, che andarono in finale contro una Spagna che stavolta aveva i numeri per dirimere la questione nei tempi regolamentari.
Nel 2016 invece Italia-Spagna finì bene per noi, dopodiché c’era la solita Italia-Germania da giocare. I tedeschi con noi non hanno mai vinto in partite ufficiali, e non lo fecero nemmeno quella volta. Non ci avevano mai affrontati ai rigori, e quella volta sarebbe andata male per loro anche dagli undici metri – l’unica variante che ci manca al campionario – se Graziano Pellé non si fosse messo a fare lo sbruffone e se Simone Zaza non fosse stato colto in rincorsa da un attacco di delirium tremens.
E poi è storia recente. La racconterà un giorno ai suoi e nostri nipoti Gigio Donnarumma, che parava spesso i rigori in campionato e che adesso lo fa anche con la Nazionale. Dopo l’ultimo parato a Saka a seguito dell’errore di Jorginho, non si era quasi reso conto di aver fatto vincere il titolo all’Italia, tanto era diventata la sua una prestazione di routine.
Dopo quasi quarant’anni, sembra di poter dire che la maledizione dei rigori è stata sconfitta, e che l’abbiamo lasciata in mano inglese. Ma non diciamolo troppo forte. Domani è già un altro giorno, e non sia mai che finisca di nuovo ai calci di rigore…..
Abbiamo cominciato con un film, finiamo con una canzone. Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore. Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia……
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