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Economia post keynesiana

John Maynard Keynes: «Il capitalismo è la sbalorditiva convinzione che il più malvagio degli uomini farà la più malvagia delle azioni per il massimo bene di tutti.»

John Maynard Keynes, primo Barone Keynes di Tilton (Cambridge, 5 giugno 1883 – Tilton, 21 aprile 1946), è stato un economista britannico, padre della macroeconomia e considerato uno dei più grandi economisti del XX secolo. I suoi contributi alla teoria economica hanno dato origine a quella che è stata definita rivoluzione keynesiana.

In contrasto con la teoria economica neoclassica, ha sostenuto la necessità dell’intervento pubblico nell’economia con misure di politica fiscale e monetaria, qualora una insufficiente domanda aggregata non riesca a garantire la piena occupazione.

Keynes, con le sue teorie innovative, fornì lo strumento a Franklin Delano Roosevelt per il suo New Deal, il programma con cui quest’ultimo riuscì a portare fuori gli Stati Uniti dalla più grave crisi economico-finanziaria della storia (prima di quella che stiamo vivendo), quella del 1929, e a farne subito dopo la Potenza vincitrice della Seconda Guerra Mondiale e la Superpotenza dominante del mondo a venire. Gli U.S.A., allora, erano la patria del capitalismo puro, eppure per risollevarsi non esitarono ad affidarsi all’intervento dello Stato (il che per i liberali dei due secoli precedenti era equivalso ad una bestemmia).

Milton Friedman

Milton Friedman: «E quindi la domanda è: i grandi dirigenti, all’interno della legge, hanno responsabilità nei loro affari al di fuori di fare il più possibile soldi per i loro azionisti? E la mia risposta a questa domanda è: no, non ne hanno.»

Le sue idee sono state sviluppate e formalizzate nel dopoguerra dagli economisti della scuola keynesiana. A quest’ultima viene spesso contrapposta la scuola monetarista, che si originò nel dopoguerra dalle teorie di Milton Friedman e che parlavano di tasso fisiologico di disoccupazione e di liberismo economico assoluto.

Basta andare su Wikipedia, si tratta di nozioni che a questo punto dovrebbero essere patrimonio comune. E allora perché i partiti cosiddetti democratici e progressisti di mezza Europa, nel bel mezzo della furia di una crisi economica che è sembrata in certi momenti non aver nulla da invidiare a quella del 1929 si sono buttati sulle ricette monetariste e di austerity con pedissequa e spietata determinazione (fino ad un punto che avrebbe fatto ribrezzo allo stesso Friedman, che pure non si era sdegnato di intrattenere rapporti nemmeno con Pinochet), e hanno dimenticato quelle keynesiane, che erano state il loro bagaglio culturale nel dopoguerra e che già una volta avevano salvato il mondo occidentale e dato sollievo a quei popoli che questi partiti si piccavano e si piccano tutt’ora di rappresentare?

Mario Monti: «Quasi sempre ciò che giova ai giovani giova al paese»

Mario Monti: «Quasi sempre ciò che giova ai giovani giova al paese»

Forse perché quei partiti non rappresentano più i popoli (almeno, non i popoli che hanno continuato a votarli fino a poco tempo fa), ma piuttosto le grandi lobbies finanziarie, i banchieri, i tecnocrati dell’ingegneria – e della macelleria – sociale. I filantropi alla Soros, i tecnici del risanamento alla Mario Monti, i riformatori alla Elsa Fornero.

Elsa Fonero: «La nostra Costituzione non tutela le generazioni più giovani. E meno ancora quelle future.»

Elsa Fonero: «La nostra Costituzione non tutela le generazioni più giovani. E meno ancora quelle future.»

Se si discute sull’opportunità di pensionare lavoratori esausti (per età e per consunzione oggettiva) consentendo loro di sopravvivere avendo di che nutrirsi; di sostituire questa forza lavoro in uscita con quella in entrata (i giovani, che abbiamo messo al mondo senza avere idea di con che cosa sfamarli e di che cosa lasciare loro in termini di vita dignitosa ed autonoma); di creare un circolo economico virtuoso (che ai tempi di Keynes e di Roosevelt poteva essere anche il semplice dare stipendi per scavare buche in terra e poi riempirle, e adesso si chiama reddito di cittadinanza o qualsiasi cosa redistribuisca ricchezza a chi era finito fuori dal giro); di accantonare restrizioni europee che servono solo ad aumentare la forbice tra chi subisce l’economia come un demone malvagio e chi ci si balocca con teorie sociali neoliberiste tendenzialmente neonaziste; di ristabilire come parametro economico essenziale il benessere (welfare) dei cittadini piuttosto che il rapporto debito – pil, lo spread, il fiscal compact, o qualche altra parola inglese che non ha traduzione non solo in italiano ma nel buon senso comune; se si discute su tutto questo, allora la strada di casa è stata persa da tempo.

Carlo Calenda: «Abbiamo sostituito la rappresentanza con la teoria economica.»

Carlo Calenda: «Abbiamo sostituito la rappresentanza con la teoria economica.»

Che l’abbia persa il partito democratico è un fatto che ci interessa poco o nulla, ognuno segue il proprio destino e grazie a Dio quello del PD è agli sgoccioli, più che meritati. Che rischi di perderla una società nel suo complesso come la nostra, che pur aumentando il consenso al governo gialloverde deve subire ogni giorno la predicazione di intellettuali cattivi maestri e tecnocrati interessati messi lì dove sono in posizione strategica dal precedente governo, è una possibilità assai più inquietante.

Ogni volta che in TV compare la faccia di un Boeri, di un Calenda, di uno Juncker o di un Ottinger (per non nominare un Macron), chiudiamo gli occhi, immaginiamo al loro posto il sorriso sardonico di John Maynard Keynes barone di Tilton, e ripensiamo a quelle buche scavate in terra che salvarono il mondo in un’epoca in cui gli ingegneri sociali da mattatoio ed i loro agiografi e seguaci abbondavano quanto e più di ora.

E le buche le scavavano soltanto per riempirle di morti di fame.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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