Reconquista. E’ questo il nome che gli spagnoli danno a quel lungo periodo della loro storia, quasi otto secoli, che intercorre tra il 19 luglio del 711 (data della battaglia di Guadalete che segnò l’inizio della dominazione araba nella penisola iberica) ed il 2 gennaio 1492 (data in cui los reyes de Castilla y Aragona Isabella e Ferdinando ricevettero la resa dell’ultimo emiro musulmano, Boabdil di Granada).
Per otto secoli, da quando il condottiero arabo Tariq ibn Ziyād – chiamato dagli stessi Visigoti che dopo la caduta dell’Impero Romano avevano governato la penisola – aveva attraversato lo stretto che da allora avrebbe portato il suo nome (Jabal al Tariq, Monte di Tariq, Gibilterra), gli spagnoli avevano dovuto condurre una lotta senza quartiere e a fasi assai alterne per ritornare in possesso del loro territorio nazionale e ricongiungerlo al corso storico dell’Europa cristiana.
Quando Giuliano conte di Ceuta, il promontorio africano che sta di fronte a Gibilterra, aveva stretto alleanza con Tariq, aveva pensato ad un brillante espediente per detronizzare il legittimo re visigoto Rodrigo. Mai si era immaginato di trovarsi soverchiato e travolto egli stesso dalla marea dell’esercito arabo–berbero che dopo Guadalete stabilì il predominio su metà degli odierni Spagna e Portogallo (la cosiddetta Al-Andalus, corruzione araba dell’Andalusia che aveva preso il nome dai primi conquistatori barbari post-romani, i Vandali).
Cinque anni dopo lo sbarco di Tariq sul suolo iberico, ai cristiani era rimasta soltanto una striscia di terra indipendente pari più o meno alle odierne Asturie e Galizia. La Spagna era diventata un califfato in grado addirittura di minacciare la Gallia dove i Franchi avevano nel frattempo stabilito la loro nazione, e stavano cercando di riesumare il vecchio Impero Romano sotto forma di Impero Cristiano. La minaccia fu sventata a Poitiers nel 732, e da quel momento la reconquista divenne un affare esclusivamente spagnolo. Nessuno in Europa ebbe la forza o la voglia di mandare eserciti crociati nella perduta Hiberia, che rimase tagliata fuori dalla storia d’Europa per i secoli successivi.
Paradossalmente, ciò fece della Spagna un’isola dove la cultura classica – che nel resto del continente era affondata nei Secoli Bui del medioevo barbarico – si era mantenuta viva. Un faro di luce che risplendeva dalle università dove i dotti musulmani sviluppavano la conoscenza riprendendola da dove l’avevano lasciata Platone ed Aristotele. I maestri costruttori arabi edificavano l’Alhambra, mentre al di là dei Pirenei non si sapeva più nemmeno come fare a progettare una fognatura, e soltanto dopo le Crociate si ebbe un’idea di come costruire una cattedrale, o anche semplici edifici che non fossero capanne di fango.
Ma per la nobiltà e il popolo spagnoli, la reconquista fu un affare diverso, e terribilmente serio. Una lotta mortale lunghissima, che alla fine restituì all’Europa un paese di cui si era persa sostanzialmente l’identità otto secoli prima e che si sarebbe affacciato all’età moderna dotato di un poderoso esercito allestito e affinato nelle tecniche e nelle strategie durante le interminabili campagne militari contro i Mori, nonché di una marineria altrettanto potente allestita per sbarrare loro la strada del Mediterraneo occidentale, e capace di lanciarsi nella nuova avventura della scoperta del Nuovo Mondo già pochi mesi dopo la cacciata degli ultimi discendenti della conquista di Tariq.
Era un paese che aveva trovato nei momenti difficili della sottomissione nazionale la sua identità più forte nel cattolicesimo, che adesso veniva vissuto per forza di cose intensamente, ai limiti del fanatismo. Tre secoli dopo la fine sostanziale delle Crociate, le vele bianche delle caravelle di Colombo salpavano avendo sopra dipinte le stesse croci rosse benedette da papa Urbano II a Clermont Ferrand e mandate alla conquista di Gerusalemme.
La Spagna che si affacciò così agguerrita al sedicesimo secolo e che probabilmente salvò l’Europa dalla conquista ottomana, era quella che l’Europa stessa aveva abbandonato per tutto il Medioevo, preferendo rivolgere le armi cristiane verso la Terrasanta e le vie del commercio orientale. La Spagna di quell’Europa era stata una propaggine estrema, la penisola sul cui promontorio erano costruite le vecchie Colonne d’Ercole, oltre le quali per il mondo antico arrivato fino a quel fatidico 1492 non c’era nulla.
I cavalieri iberici dovettero fare tutto da soli, e finirono per fare grandi cose, per consegnare alla storia grandi imprese. I menestrelli d’Europa cantavano nelle corti la Chanson de Geste di Roland e dei cavalieri di Carlo Magno morti a Roncisvalle, e poi anche le imprese de Crociati oltremare, dalla presa di Gerusalemme alle guerre contro il Saladino. Ma anche in Spagna si stava scrivendo un poema cavalleresco di pari fascino e sostanza. Perché anche la Spagna, come prima e dopo altre nazioni nell’ora del pericolo maggiore, aveva trovato il suo eroe nazionale.
Rodrigo Diaz de Bivar era un nobile cresciuto alla corte di Castiglia y Leon, uno dei regni sorti dal lento e progressivo sfaldamento del califfato arabo omayyade che intorno all’Anno Mille, dopo la perdita della spinta irresistibile che l’esercito musulmano aveva mantenuto per tutto l’Alto Medioevo, aveva dato vita alle cosiddette Taifas, piccoli stati non più capaci di far fronte comune contro i cristiani ma soltanto di perdersi in un gioco continuo di alleanze fatte e disfatte, nelle quali non si teneva più gran conto della religione e dello scontro di civiltà, ma piuttosto delle convenienze.
In questo caos, Rodrigo divenne ben presto una figura di spicco, destinata a conquistarsi gloria e soprattutto rispetto, tanto da parte dei suoi correligionari quanto da parte dei nemici mussulmani, che trattò sempre con cavalleria pari alla determinazione nel combatterli. In breve, Rodrigo Diaz divenne El Cid, dalla trasposizione in lingua spagnola dell’arabo el-Sidi, il signore. Si firmava in latino, ego Ruderico, ma alle sue truppe parlava in spagnolo (e fu il primo in epoca post-romana ad arringarli e motivarli come aveva fatto Giulio Cesare, anche perché essendo assai erudito aveva letto il De Bello Gallico e di Cesare e dei classici dell’antichità sapeva molto), ed i suoi soldati in spagnolo gli si rivolgevano, ben presto soprannominandolo anche campeador (dalla volgarizzazione iberica del latino campus doctor, signore del campo di battaglia).
La sua vita finì per essere un poema epico, quel poema che circolando per l’Europa cortese rivaleggiò con le chansons des gestes di franchi e provenzali. El cantar de mio Cid è ritenuto da molti il primo testo scritto in lingua spagnola di cui si abbia memoria storica. Quando el Cid morì, nel 1099, pochi mesi prima che i Crociati di Goffredo di Buglione entrassero a Gerusalemme, la storia ancora non gli aveva assegnato un posto pari a quello che l’epica gli stava già tributando. La vera impresa di quel momento storico non fu tanto quella della riconquista dei Luoghi Santi del medio oriente, che si sarebbe dimostrata effimera per un occidente cristiano che non avrebbe più saputo riunirsi in un’unica entità politica e militare, a differenza di quanto Saladino sarebbe invece riuscito a fare con l’Islam.
No, la vera impresa sarebbe stata quella compiuta proprio dal Cid, capace di lasciarsi dietro in punto di morte un paese liberato per metà, con lo sbocco al mare Mediterraneo di quel regno di Valencia che lui stesso si era conquistato con le sue armi, infliggendo agli Arabi la loro prima grande sconfitta da quando avevano messo piede nella penisola iberica. Ma soprattutto dotato della consapevolezza, che a quel tempo erano in grado di fornire soltanto i grandi eroi cavallereschi, di aver superato i momenti peggiori e di potersi finalmente riunire come un sol uomo dietro uno stendardo, una croce, un orgoglio nazionale. Una hombrìa di cui el Cid aveva dettato il modello per i secoli a venire.
C’era ancora tempo perché la Spagna rientrasse nella e poi addirittura si impadronisse della grande storia europea e mondiale, ma intanto era tornata padrona della sua storia mentre tributava le esequie funebri al Cid Campeador. Che avrebbe avuto peraltro una sorte avventurosa anche da morto. Le sue spoglie mortali ebbero varie vicissitudini, finché adesso riposano a Burgos (antica capitale del regno di Castiglia, al tempo in cui Madrid era poco più di un villaggio visigoto sopravvissuto alle scorrerie arabe) assieme a quelle di Doña Jimena, la sua consorte regina.
Per quel paradosso che ha fatto della Spagna un mondo a sé anche quando il mondo le si inchinava, culturalmente parlando queste sono tutte storie rimaste ancora da raccontare. Il grande cinema si è avvicinato loro raramente. Lo ha fatto Hollywood nel 1961 con il regista specializzato in colossal Anthony Mann. Grande cinema al servizio di una storia completamente romanzata. El Cid aveva il volto da eroe classico e la mascella squadrata di Charlton Heston e sua moglie Jimena quello da procace regina di cuori di Sophia Loren. Il finale del film risente dell’aura di epopea creatasi attorno alla figura del condottiero, che viene portato ormai esanime sul campo di battaglia sotto le mura di Valencia ed è lo stesso capace con la sua sola presenza di infondere coraggio ai suoi connazionali fino alla vittoria.
Anche la colonna sonora, scritta e diretta dal maestro dei colossal cinematografici dell’epoca, l’ungherese Miklos Rosza, è all’altezza della leggenda che circonda il personaggio e tutto ciò che ha a che fare con lui ed il suo mito. Il suo cavallo da guerra, Babieca, è sepolto e venerato presso il Monastero di San Pedro de Cardeña, presso Burgos. La sua spada, Tizona, forgiata dai Mori di Cordova, è esposta oggi al Museo del Cid di Burgos.
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