Le Agenzie stanno battendo un’altra notizia, una brutta notizia, l’ennesima. Ormai non sanno fare altro…..
Questa non ha a che fare con il Covid. Ha a che fare con il tempo che si porta via tutto. La nostra giovinezza, le nostre estati più magiche, un altro ragazzo d’oro di tanto tempo fa….
Paolo Rossi era un ragazzo come noi, cantava Antonello venditti. Proprio così. 43 inverni fa l’Italia calcistica scopriva un nuovo eroe. Erano gli anni in cui il campionato non era altro che un lungo derby torinese. Ma nell’inverno di quel 1977 non era il Torino di Radice l’antagonista della Juventus di Trapattoni. Era una squadra di provincia, che più di provincia non si può. Allenata da uno di quegli stregoni del calcio di cui una volta abbondavamo, Giovan Battista Fabbri, che con molta sagacia e nessuna presunzione aveva accettato di allestire una squadra con gli scarti delle grandi.
Il Vicenza in quegli anni era l’unica squadra che aveva mantenuto nella ragione sociale il nome dello sponsor. Per molti dal dopoguerra fino agli anni settanta era stato il Lanerossi. Presidente era Giuseppe Farina, uno dei tanti imprenditori di provincia innamorati del calcio, il primo ad osare di fare lo sgambetto agli squadroni del nord. Farina dette a Fabbri giocatori come Cerilli, Carrera, Salvi, Filippi, Guidetti. Figurine dell’album Panini che fino a quel momento erano stati considerati doppioni di scambio. A Vicenza si scoprirono tutti campioni. Ciliegina sulla torta, il prestito di un ragazzo pratese cresciuto nella Cattolica Virtus di Firenze, come dire, a uscio della Fiorentina. La quale in quegli stessi anni soffiava il gioiello Antognoni da sotto il naso della Juve. Che si vendicò facendo altrettanto con quel ragazzo mingherlino che tuttavia sembrava ancora troppo esile per il campionato di serie A e abbisognava di irrobustirsi un po’, ma che aveva doti di un furetto implacabile in area di rigore avversaria. Dopo averlo dato in prestito al Como, fu la volta del Vicenza. E a Vicenza per poco Paolo Rossi non fece lo sgambetto alla sua comproprietaria.
Con il Toro di Graziani e Pulici affaticato da due annate giocate a cento all’ora (quella dello scudetto e quella dei 50 punti contro i 51 della Juve) furono i biancorossi vicentini a contendere lo scudetto ai bianconeri torinesi. Arrivando alla fine a pochissimi punti da loro.
Una favola come tante tra quelle che il campionato italiano ogni tanto propone? Altro che, ed era appena cominciata. Quell’estate del 1978 si partiva per l’Argentina, obbiettivo Mundial. I padroni di casa erano favoriti, ma gli azzurri non erano da meno, avendo rimesso insieme una Nazionale che faceva faville dopo la crisi e la rifondazione seguita al Mondiale di Germania del 1974. Qualificatasi alla fine di un girone eliminatorio favoloso in cui aveva travolto tutte le avversarie (compresa l’Inghilterra, battuta per la prima volta in una competizione ufficiale), l’Italia era arrivata tuttavia un po’ provata alla primavera del 1978, battendo un po’ in testa al cospetto di avversarie pur brillanti come la Francia dell’astro nascente Michel Platini.
Servivano forze nuove, serviva qualcuno che desse rifiato a Roberto Bettega e Ciccio Graziani in attacco, e rinforzasse la difesa senza snaturare quel bel gioco all’olandese che la Nazionale aveva mostrato negli ultimi anni. Ma al CT Enzo Bearzot non mancava il coraggio. La decisione fu presa a Mar del Plata, dopo un’ultima sofferta amichevole con il Deportivo Italico: dentro il terzino Cabrini, dentro il centravanti Paolo Rossi, che gli argentini avevano già adocchiato soprannominandolo amichevolmente Pablito.
E Pablito non deluse le aspettative, cominciando laggiù la sua leggenda. Dopo 40 secondi del match inaugurale eravamo già sotto contro la Francia, il gol più veloce della storia dei Mondiali. Da quel primo minuto comunque la Francia non vide più palla. Pablito segnò il pareggio, Zaccarelli il gol vittoria. Da lì in poi il Mundial dell’Italia virò decisamente: da una nuova tragedia sportiva dopo quella di Stoccarda ci si avviò decisamente verso un probabile trionfo. Pablito ne segnò altri due. Nel frattempo, gli argentini che avevano dovuto ingoiare la scelta del loro selezionatore, el flaco Menotti, di lasciare a casa colui che già chiamavano el pibe de oro, Dieguito, si appassionarono alle imprese del niño de oro, come ribattezzarono Pablito.
L’albiceleste vinse quel Mondiale così controverso, con la gente che gioiva nelle strade dove solitamente passavano i carri armati di Videla. Ma fu contenta di non dover incontrare di nuovo in finale la squadra azzurra, da cui ne aveva buscate nello scontro diretto del girone eliminatorio.
Per i ragazzi di Bearzot, Pablito compreso, il ritorno a casa fu trionfale, malgrado l’amaro in bocca di un quarto posto finale che tutti sentivano andare un po’ stretto. E il difficile, per il niño de oro cominciò allora. Paolo Rossi non era più un ragazzo come noi. Era il più grande attaccante italiano del dopoguerra insieme a Gigi Riva e Roberto Bettega. Non era più un giovane talento da mandare a farsi ossa più robuste in provincia, era un centravanti a tutti gli effetti da Juventus. Anche se la Juventus, la cui formazione era a quel punto costituita per sette undicesimi da titolari della più bella Nazionale mai vista dai tempi di Vittorio Pozzo, prese una decisione solo apparentemente clamorosa.
Giuseppe Farina sapeva di avere pescato l’asso di briscola, ma sbagliò a giocarlo. O perlomeno, la Juve vide il suo bluff. La comproprietà andò alle buste, farina per il Vicenza mise dentro 2 miliardi e seicento milioni, una cifra esorbitante per l’epoca. I torinesi misero appena mezzo miliardo. Farina pagò caro l’azzardo, l’anno successivo al Mundial argentino il Lanerossi giocò un campionato da squadra scoppiata ed alla fine retrocesse. Oberato dai debiti, Farina prestò il suo gioiello ad un altro presidente rampante, quel Franco D’Attoma che aveva ripetuto l’impresa del Vicenza arrivando a pochi punti dal Milan campione d’Italia del 1979, ma con il record aggiuntivo consistente nell’aver concluso il campionato, prima squadra della storia, senza sconfitte.
Con Pablito in squadra, il Perugia doveva continuare a volare, ma non fu così. Gli dei del pallone sembravano chiedere a Rossi il conto di quanto gli avevano elargito in Argentina. Malgrado giocasse un buon campionato, quello del 1980 rischiò di essere per il ragazzo di Prato l’anno della fine della carriera.
Il Calcioscommesse fu il primo scandalo del calcio a mettere in crisi il sistema su cui si reggeva e nello stesso tempo le modalità di applicazione della giustizia sportiva. Paolo Rossi fu accusato insieme a tanti altri campioni di nome di aver falsato le rispettive partite per incassare scommesse truccate. Le accuse si reggevano sulle rivelazioni di pentiti, senza riscontri oggettivi. Come sarebbe successo quasi trent’anni dopo con Calciopoli, per la giustizia sportiva eri e sei colpevole fino a prova contraria. Un abominio giuridico da medioevo barbarico. Fatto sta che Rossi si beccò due anni di squalifica e la sua storia sportiva sembrava finita lì.
All’Europeo giocato in casa nel 1980, la bella Italia del Mundial argentino non era riuscita ad arrivare in fondo a causa delle sue difficoltà realizzative. La mancanza di Pablito si sentiva, e quando giunse l’ora di ripartire per una nova spedizione Mundial, questa volta per la vicina Spagna, Enzo Bearzot rifletté che persa per persa tanto valeva scommettere per la seconda volta su quel ragazzo, come quattro anni prima. Anche se ormai erano due anni che non si allenava seriamente e che era lontano dal clima agonistico. Rientrato nelle ultime due partite del campionato 1982 nelle file della Juventus che si apprestava a vincere quello scudetto lungamente conteso alla Fiorentina, Rossi aveva tutt’altro che incantato. Sembrava spento, in confusione tecnico-tattica. E’ vero che si portava sempre appresso difensori che non si fidavano più di tanto della sua crisi, e finiva comunque per creare spazi ai compagni.
L’Italia Mundial 1982 fu una scommessa ancora più azzeccata di quella argentina, e Bearzot dimostrò di essere un condottiero come lo era stato Pozzo nel 1934 e nel 1938. La squadra si chiuse a falange contro tutto e contro tutti, avversari, tifosi e giornalisti, e cominciò a rispondere alle critiche con prestazioni micidiali. Nel gironcino dei quarti di finale aveva di fronte Argentina e Brasile. Ai gauchos inflisse un’altra delusione dopo quella di Baires, stavolta segnarono Tardelli e Cabrini ed accorciò Passarella, con Maradona annullato da Gentile con le buone o con le cattive.
Tutti aspettavano Rossi, ma soprattutto aspettavano un Brasile che sembrava stratosferico. Per gli azzurri pareva che non ci fosse scampo. Ma gli dei del pallone decisero quel giorno, 5 luglio 1982 allo stadio Sarria di Barcellona di restituire al niño de oro ed ai suoi aficionados tutto ciò che gli avevano tolto nei due anni precedenti. Nessuno aveva mai segnato tre gol al Brasile nella stessa partita. Lo fece Paolo Rossi, risorgendo dall’abisso e proiettando l’Italia verso una vittoria finale su cui in partenza non avrebbe scommesso nessuno. Altri due gol alla Polonia ed il primo dei tre finali alla Germania Ovest lo laurearono capocannoniere del Mundial con sei reti. Nove complessive ai Mondiali, se sommate alle tre in Argentina. Lo avrebbe eguagliato soltanto un altro ragazzo di talento passato dal Vicenza quasi dieci anni dopo di lui: Roberto Baggio.
IL 1982 si chiuse per Rossi con il Pallone d’Oro, un triplete che sarebbe stato eguagliato vent’anni dopo soltanto dal fenomeno Ronaldo, centravanti di quel Brasile che vinse il quinto titolo a Yokohama ma che ancora piangeva ripensando a come aveva perso il quarto a Barcellona. Grazie a Pablito.
La più straordinaria delle carriere sportive era destinata tuttavia a concentrarsi nello spazio di due mondiali. Il Rossi che tornò a settembre a rivestire la maglia bianconera era sempre un signor centravanti, ma sembrava aver dato il meglio di sé in quei giorni irripetibili dell’estate spagnola, tra Vigo, Barcellona e Madrid. La Juve perse una finale di Coppa Campioni, vinse una Coppa Uefa e vinse soprattutto la tragica finale dell’Heysel, ma di quei successi si ricordano più che altro le imprese di Platini e Boniek, arrivati nel frattempo a rinforzarla.
Rossi sentì dunque di aver fatto il suo tempo a Torino, e passò a Milano, sponda rossonera, dove ritrovò quel matto del suo vecchio presidente Farina che lo pagò anche stavolta una cifra incredibile. Oltre cinque miliardi di vecchie, vecchissime ma pesantissime lire. A Milano ebbe la maglia che era stata di Gianni Rivera, la numero 10. Ma anche lì il palcoscenico ormai era di altri, doveva lottare per un posto da titolare contro Hateley e Virdis, ed anche in quel caso capì che il tempo stava giocando contro di lui. Partendo per la sua ultima destinazione, quella Verona che aveva appena vinto un clamoroso scudetto vendicando Vicenza e Perugia e che lo scambiò con quel Galderisi che già era stato determinante per lo scudetto juventino del 1982 (mentre lui smaniava in tribuna aspettando la fine della squalifica per il Totonero), incrociò il nuovo presidente rossonero in arrivo, Silvio Berlusconi, che chissà se non lo avrebbe tenuto volentieri.
Ma Rossi ormai era storia di un’altra epoca, e Berlusconi ne apriva una nuova. Le ginocchia di Pablito tra l’altro facevano i capricci da tanto tempo. Quell’anno, il 1987, dissero chiaramente al loro proprietario che era ora di riposarsi.
Finita la storia del niño de oro, cominciò la sua leggenda. Italia – Brasile è la partita più rivista della storia del calcio italiano. Tutto sanno esattamente a che minuto segnò il primo, il secondo, il terzo gol che schiantarono i superbi carioca e restituirono ad un paese che dal dopoguerra non aveva più avuto orgoglio – né dentro né fuori dei campi di calcio – quello di sentirsi i migliori del mondo. Non solo nel calcio.
Paolo Rossi era l’italiano medio, sovrastato fisicamente e a volte mentalmente da avversari più robusti ed all’apparenza più determinati ed anche cattivi. Ma una volta messo con le spalle al muro, trovava sempre il guizzo vincente arrivando sul pallone della gloria un attimo prima del difensore, chiunque esso fosse. Italia – Germania dopo l’82 cessò in parte di essere il gol di Rivera all’Azteca arrivato in controtempo sul cross di Domenghini, e cominciò ad essere la testa di Pablito che spunta da sotto il corpaccione di Karl Heinz Forster e schiaccia in rete il cross di Gentile.
«Eravamo campioni del mondo. Feci solo mezzo giro di campo coi compagni: ero distrutto. Mi sedetti su un tabellone a guardare la folla entusiasta e mi emozionai. Ma dentro sentivo un fondo di amarezza. Pensavo: “Fermate il tempo, non può essere già finita, non vivrò più certi momenti”. E capii che la felicità, quella vera, dura solo attimi».
(Ho fatto piangere il Brasile, Paolo Rossi, 2002, autobiografia)
«Un impasto di Nureyev e Manolete, un giocatore con la grazia del ballerino e la spietata freddezza del torero».
(Giorgio Tosatti)
Aveva 64 anni, un’età in cui certi guizzi non ce li hai più, e gli avversari si chiamano male incurabile. E’ ora di smettere di guardare cosa battono le Agenzie, perché non portano più i risultati di grandi imprese, ma soltanto cattive notizie.
Eppure, chiudo gli occhi e risento soltanto la voce di Nando Martellini. «Rossi….gol! Rossi!». E poi quel «campioni del mondo!» urlato tre volte. Se quando si tratta di pallone possiamo ancora guardare tutti, ma proprio tutti, dall’alto in basso, lo dobbiamo a te. Adiòs, Pablito. Quelle quattro stelle sulla maglia azzurra sono il tuo monumento. Per sempre.
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