Nell’agosto del 1919 usciva su Argosy All-Story Weekly, la più celebre delle riviste pulp americane (che pubblicavano cioè storie popolari e romanzi a puntate), la prima parte di un racconto che si intitolava La maledizione di Capistrano.
Il suo autore, Johnston McCulley, era un canadese naturalizzato statunitense, un uomo dai mille mestieri rimasto come tanti senza mestiere dopo la Prima Guerra Mondiale, e che come tanti aveva tentato la via del successo come scrittore. A costoro, Argosy offriva una possibilità diffondendo le loro storie fantastiche presso un pubblico sempre più grande e sempre più affamato di letteratura popolare a basso costo, le cosiddette dime novels (*).
La storia era ambientata negli ultimi anni della dominazione spagnola sull’Alta California, a Capistrano, un sobborgo di quello che già all’epoca era il pueblo, l’insediamento abitativo più importante della regione, Nuestra Señora de Los Angeles. E che un giorno era destinata a diventare una delle più grandi e importanti metropoli del mondo, tutt’ora pervasa delle sue due anime, quella ispanica delle origini e quella yankee acquisita con l’annessione da parte dei vicini Stati Uniti d’America.
Il personaggio protagonista del feuilleton pubblicato da Argosy era destinato ad avere altrettanta fama e successo. Pescando tra le leggende californiane, la mitologia degli Indios locali e quella massonico – letteraria che aveva dato già vita a personaggi analoghi (in Europa Emma Orczy aveva pubblicato da poco la sua Primula Rossa, l’eroe misterioso che aiutava i nobili in fuga dalla Rivoluzione Francese a trovare scampo nella vicina Inghilterra), mescolando sapientemente il tutto, McCulley fece centro regalando al pubblico per tante generazioni a venire uno dei suoi personaggi più amati, uno degli eroi, dei giustizieri mascherati che stavano andando e sarebbero andati sempre più di moda (di lì a poco sarebbe esploso il Batman a fumetti di Bob Kane).
El Zorro era un nome semplice, evocativo e di grande effetto. In spagnolo significa la volpe, sinonimo di astuzia e di inafferrabilità. Il personaggio traeva origine dalla credenza degli indiani dell’Alta California che esistesse uno spirito benevolo che li proteggeva dalle ingiustizie perpetrate loro dai discendenti dei Conquistadores. Furbo appunto come una volpe, il giustiziere del popolo nella fantasia suggestionata di uno scrittore imbevuto di cultura romantica diventò il vendicatore mascherato, armato della nobile ed elegante spada che era l’arma dei gentiluomini anche in quell’epoca immaginaria che si affacciava ormai sul Selvaggio West americano e sulla sua conquista da parte di rozzi, illetterati e violenti cowboys e pistoleros.
A difesa di un popolo di peones schiacciati dal Viceré di Spagna e dai suoi soldados avidi di ricchezze, prima che gli yankees arrivassero a portare il progresso che avrebbe fatto di Los Angeles una delle capitali economiche della nazione più ricca e potente della terra, McCulley immaginò la comparsa di questo eroe dall’identità segreta capace di tenere beffardamente in scacco tutta la guarnigione spagnola, sventandone le malefatte e irridendone i tentativi di catturarlo.
Se lo Zorro traeva i suoi archetipi da un lato dagli spiriti venerati dalla religione dei pellirosse e dall’altro dalla mitologia europea del giustiziere amico del popolo nata con Robin Hood e dotata di maschera con la Primula Rossa, nelle mani di McCulley e dei cinematografari che – visto l’immediato successo, tanto che la storia fu ristampata a furor di popolo in volume l’anno successivo, nel 1920, con il titolo Il segno di Zorro – subito si precipitarono a scritturarne la storia come copione per Hollywood, egli divenne fin da subito un eroe tipicamente americano.
Don Diego de la Vega, l’haciendero ispanico che brandiva la spada per difendere i suoi peones dalle angherie del Viceré, si comportava già come uno degli yankees che avrebbe ereditato la sua terra e sostituito la sua proprietà agricola con l’industria. E che, una volta vinta la sua battaglia cacciando gli Spagnoli, non si sarebbe sentito appagato dal consegnare – per quanto temporaneamente – il suo paese al Messico del sanguinario e altrettanto sfruttatore generale Santa Ana, ma avrebbe chiesto di unirsi a quei gringos che da tempo avevano messo gli occhi sulle ricchissime terre che gli Spagnoli non avevano saputo sfruttare appieno. E che gli Stati Uniti avrebbero invece valorizzato in tutte le loro possibilità.
Al tempo di McCulley, come detto Los Angeles significava già Hollywood. Il cinema era già la Decima Musa, la forma d’arte che avrebbe rappresentato al meglio i sogni del ventesimo secolo. Zorro sembrava fatto apposta per il cinema, e il divo dell’epoca, Douglas Fairbanks, per interpretarlo. In quegli anni eroici della cellulosa, Fairbanks finì per identificarsi con Zorro così come Errol Flynn si era identificato con Robin Hood.
In quegli anni, si stava costruendo un nome altrettanto leggendario l’uomo che avrebbe dato a Zorro il posto che ancora oggi occupa nel cuore di grandi e piccini. Pare che Walt Disney fosse appassionato del vendicatore mascherato perché essendo massone al pari di McCulley riconosceva e apprezzava nelle sue simbologie (il costume ed il mantello nero, la zeta tracciata con la spada) quelle dell’organizzazione di cui faceva parte.
Fatto sta che fu Disney a creare la versione definitiva, canonica, della Leggenda di Zorro. Il suo protagonista, Guy Williams, è Zorro per antonomasia, e lo resterà per sempre. Se chiudiamo gli occhi, noi ex bambini degli anni cinquanta e sessanta lo rivediamo in sella a Tornado che si impenna mentre il fulmine sembra scendere a fare un tutt’uno con la sua spada. Zorro era la nostra TV dei Ragazzi, la sigla del suo telefilm è rimasta nelle nostre orecchie come il sibilo della sua spada che traccia la zeta. La zeta che sta per Zorro.
Da allora, sono state innumerevoli le interpretazioni dell’eroe mascherato sul grande schermo. Se quella di Alain Delon per la regia di Duccio Tessari nel 1975 fu sostanzialmente un’occasione persa, quella del 1998 nella quale Anthony Hopkins e Antonio Banderas si rubarono la scena a vicenda fu un capolavoro, e insieme un ritorno all’ortodossia, alle origini della storia. Il mito dell’eroe addestrato dai migliori maestri di spada europei si mescolava con quello di Joaquin Murieta, bandido ed eroe popolare californiano realmente esistito la cui vicenda il regista Martin Campbell fece felicemente confluire in quella leggendaria di Zorro. Il resto lo fecero due fuoriclasse della recitazione che non sfigurano affatto, anzi, con i loro ritratti accanto a quelli di Douglas Fairbanks e Guy Williams.
«Quando il popolo avrà bisogno, ci sarà sempre uno Zorro», dice il vecchio Anthony Hopkins morente alla figlia Catherine Zeta-Jones ed al suo successore Antonio Banderas nella Maschera di Zorro del 1998. Ed è lecito pensare, allo stesso modo, che ci sarà sempre qualcuno capace di raccontare al cinema o sui libri la sua storia. Come quella Isabel Allende capace di cimentarsi con il più improbabile (apparentemente) dei suoi personaggi e di darne una versione originalissima e affascinante come qualsiasi altra delle sue novelle dell’America Latina. Lasciandoci anche lei ad occhi chiusi ad immaginare Tornado che si impenna ed El Zorro in sella a lui che solleva la spada, a domare il fulmine e a scagliarlo sui cattivi mettendoli in fuga.
(*) novelle da pochi cents, un dime equivale a dieci cents, un decimo del dollaro statunitense.
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