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Eri Felice, come la nostra infanzia….

L’estate era un lungo, infinito Giro d’Italia. Si prendeva ogni mattina il compagno più mingherlino, uno per caviglia, e gli si faceva tracciare con il sedere la pista sulla sabbia. E poi via, corse leggendarie a forza di ditate a quelle biglie, ciascuna delle quali aveva i colori ed il nome di un campione dell’epoca. Chi aveva Felice Gimondi se lo teneva stretto, perché era il nostro campione.

BigliaGimondi190817-001Era un tempo in cui bastava poco per divertirsi, una biglia colorata, della sabbia e i discorsi dei grandi da trasformare in film che duravano finché la mamma non chiamava a pranzo (interrompendo senza discussioni qualsiasi partita e qualsiasi polemica), per riprendere poi il pomeriggio o la mattina dopo. Se si correva tra noi ragazzi con le biglie o in bicicletta, il più svelto si battezzava Gimondi (o Agostini se la gara era ispirata al motociclismo), agli altri toccavano nell’ordine Eddy Merckx, Roger De Vlaemynck, Jacques Anquetil, Luis Ocaña, Gianni Motta, Raymond Poulidor e via dicendo.

Il ciclismo era ancora uno sport che permetteva di essere raccontato, vissuto, immaginato con toni da leggenda. La Gazzetta, la rosea, ci riusciva ogni giorno, il resto lo facevano la radio e la neonata da poco televisione. Le biciclette non erano ancora molto diverse da quelle con cui due italiani avevano dominato le corse, a cavallo dell’ultima guerra, Gino Bartali e Fausto Coppi. Dopo il loro addio (drammatico nel caso di Fausto), sembrava che non avremmo gioito mai più, e invece eccolo qui, Felice Gimondi da Sedrina (BG), nato nel 1942 quando Bartali faceva la staffetta partigiana e Coppi non era ancora il Campionissimo.

Felice fu l’orgoglio italiano che si rinnovava sulle strade di tutta Europa. Uno dei pochi a vincere Giro d’Italia, Tour de France e Vuelta de España nella sua carriera (sette corridori in tutto, due soli italiani, dopo di lui soltanto Vincenzo Nibali). Uno che se non fosse stato coetaneo di Eddy Merckx avrebbe vinto molto di più. Ma che comunque è stato l’unico che il Cannibale non è riuscito a mangiarsi. Anzi, gli è sopravvissuto, perché il terzo Giro d’Italia lo vinse nel 1976, a 33 anni, quando Merckx era già finito (arrivò ottavo, dietro a De Muynch e a Francesco Moser, che si apprestava a raccogliere il testimone di numero uno del ciclismo italiano). E poi il mondiale al Montjuich nel 1973, e in totale 118 vittorie da professionista.

Dopo di lui, da Moser a Saronni fino a Nibali e Aru, passando per Cipollini e Pantani, abbiamo continuato ad essere tifosi, ma non più appassionati. Troppe cose stavano cambiando, e non solo le biciclette e gli asfalti sulle strade.

GimondiPantani190817-001Gianni Brera, il nostro miglior giornalista – pardon, poeta – sportivo, lo aveva soprannominato Nuvola Rossa. Adesso è lassù, e su quella nuvola il primo che lo ha aspettato e abbracciato siamo sicuri che è stato Marco Pantani, di cui era stato direttore sportivo alla Mercatone Uno negli anni d’oro del Pirata. Colui che gli avrebbe assomigliato di più da corridore. Colui che al pari di lui la vita aveva relegato a volte al secondo posto. Ma secondo, lui non si era mai sentito.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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