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España desnuda, l’eredità di Napoleone

La "partigiana" Agostina all'assedio francese di Saragozza

Il 2 maggio 1808 il popolo di Madrid si sollevò. E nei giorni successivi cominciò una storia del tutto diversa da quella che il mondo aveva conosciuto fino a quel momento.

La storia, per la verità, aveva già cominciato a cambiare da anni. A Parigi, un altro popolo qualche anno prima aveva stabilito il suo diritto a scegliersi i governanti, sostituendosi alla grazia di un Dio che raramente fino ad allora si era mostrato misericordioso verso le sue sorti.

La rivoluzione francese aveva spazzato via millenni di superstizioni ed arbìtri, facendo saltare in aria sistemi sociali come il coperchio di una pentola troppo a lungo tenuta in ebollizione. Aveva messo paura a teste coronate e cortigiani che raramente ne avevano avuta fino a quel momento. Aveva portato il popolo sulla scena, a recitare una parte che da troppo tempo non era più sua. La parte di chi è padrone del suo destino.

Ma tutto questo sarebbe forse durato poco, come già altre volte nella lunga storia delle rivolte popolari, se la Grande Rivoluzione non avesse trovato alla fine il suo campione. L’uomo che veniva da un’isola sperduta, selvaggia, lontana, era destinato a passare alla storia come il più grande generale dei tempi moderni. A vincere battaglie impossibili, contro coalizioni ed eserciti che traevano la loro ragion d’essere da leggende che risalivano al Medioevo. Lui confidava solo su se stesso ed il suo genio. Lui non temeva né Dio né uomini. Lui era Napoleone Bonaparte. Prima di lui c’era stato solo Giulio Cesare. Uomini che non hanno confini al proprio destino, perché dentro di sé non ne sentono e non ne vedono.

Napoleone a Madrid, 1810

Napoleone a Madrid, 1810

Il generale còrso alla fine aveva voluto porsi sulla testa la corona imperiale. «Dio me l’ha data, guai a chi me la tocca», disse nella notte in cui se la depose sul capo, strappandola di mano al Papa fatto andare lì per l’occasione e poi ridotto a comprimario. Nemmeno Carlo Magno, all’atto di fondare un impero millenario, aveva osato tanto, ed era sceso lui fino a Roma, inchinandosi ad un potere che in qualche modo percepiva come superiore al suo.

Napoleone no. Napoleone sapeva che l’unico Dio in cui poter credere era il suo orgoglio smisurato come le sue capacità. A Notre-Dame cancellò tredici o quattordici secoli di storia, quella seguita alla caduta dell’Impero Romano, e ne cominciò un’altra, quella del primo Impero Francese. Una grandeur per la quale i suoi connazionali gli sarebbero rimasti grati all’infinito.

Ma se il generale che esportava le libertéegalitéfraternité della Rivoluzione che aveva spazzato via oscurantismo ed arbitrio trovava seguaci pronti a correre sotto le sue bandiere in tutta l’Europa romantica di inizio Ottocento, l’imperatore che gli succedette quella notte a Notre-Dame finì per trovarsi contro gli stessi nemici di sempre e qualcuno in più. Gli Stati nazionali ormai erano una realtà, e Napoleone – che voleva mettere i suoi familiari sul trono di ognuno di essi in luogo dei vecchi sovrani, giocandoseli come pedine degli scacchi – era ormai percepito un invasore ed un usurpatore come tutti gli altri.

Francisco Goya, Il 2 maggio 1808

Francisco Goya, Il 2 maggio 1808

Un irresistibile conquistatore, che non avrebbe trovato un avversario in grado di batterlo sul campo di battaglia fino alla fine. Perfino l’ultima battaglia, a Waterloo, avrebbe potuto essere sua, arridergli, se la sorte non gli avesse voltato le spalle all’ultimo momento e per un soffio.

No, Napoleone per vent’anni non avrebbe conosciuto sconfitte, ed il suo destino alla fine sarebbe stato deciso all’apparenza soltanto da fattori naturali, non da avversari umani. La steppa russa in cui disperse e logorò la sua Grande Armèe esponendola ai colpi del Generale Inverno (l’inverno russo, che già alla fine di settembre si sarebbe rivelato micidiale per la legione francese che proveniva da terre dal clima assai più clemente). O le distese desertiche della Spagna, dove aveva conosciuto le prime delusioni ed aveva ignorato i primi segnali premonitori di un vento che si preparava a cambiare.

La guerra non era soltanto quella che gli avevano insegnato alla Ecole Militaire di Saint Cyr a Parigi. La guerra si faceva in tanti modi, e gli spagnoli si erano alla fine ricordati di aver vinto loro la Reconquista, contro un nemico non meno formidabile dell’esercito francese imperiale.

Francisco Goya, Il 3 maggio 1808

Francisco Goya, Il 3 maggio 1808

Dopo Trafalgar, nel 1805, Napoleone aveva dovuto rassegnarsi a non poter invadere l’Inghilterra, e aveva dovuto contentarsi di porle un blocco navale continentale tutt’altro che efficace, che anzi rischiava di tramutarsi in farsa. La Royal Navy aveva stabilito il suo di blocchi, ed era molto più effettivo. La Francia ed i suoi satelliti erano di fatto tagliati fuori dal commercio e dallo sfruttamento delle risorse del Nord e del Sud America, nonché dell’Asia.

Gli inglesi avevano nei portoghesi un alleato naturale e solidissimo fin dal 1373, dalla stipula di quel trattato che a tutt’oggi è ancora il più antico mai negoziato da qualunque diplomazia, tra quelli ancora in vigore. Il Portogallo per la Gran Bretagna era stato il lasciapassare per le colonie americane, e adesso era la testa di ponte per vanificare l’embargo napoleonico. Da Lisbona passava qualunque tentativo britannico di minare la stabilità del trono imperiale francese.

Nel 1808, Napoleone tirò il primo lancio di dadi giocando d’azzardo con la sorte, che in quel momento sembrava ancora benevola nei suoi confronti. Attraverso la Spagna, spedì un esercito a conquistare il Portogallo, e in un colpo solo si prese tutta la penisola iberica. La Spagna non era più quella sul cui impero non aveva tramontato il sole. Le colonie sudamericane da tempo erano di fatto economicamente in mano agli inglesi, così come lo era il Nordamerica francese. La decadenza spagnola era stata lunga e dolorosa, con il paese ridotto ad una immensa sagrestia cattolica governata dall’Inquisizione, da cui da tempo erano state scacciate le classi più produttive, sia per l’industria che per il commercio.

L'opera più celebre di Goya, La maja desnuda

L’opera più celebre di Goya, La maja desnuda

La penisola iberica sembrava un frutto maturo, anzi marcito, da veder cadere in mano al conquistatore francese che finalmente poteva vendicare secoli di sconfitte a partire da quelle subite ai tempi di Carlo V. Ma Napoleone, che aveva spedito al di là dei Pirenei tutti gli uomini che non erano destinati alla Grande Armata di stanza in Germania (e che si preparava alla fatale campagna di Russia), aveva fatto male i propri conti.

I francesi entrarono a Madrid a marzo del 1808, e subito si comportarono in modo tale da contraddire quegli stessi ideali che la loro rivoluzione aveva prescritto loro di esportare in tutta Europa. A quel punto, erano degli oppressori come qualunque altro esercito straniero. E quella volta avevano scelto il popolo sbagliato da opprimere.

Nelle settimane in cui la Francia fece il bello ed il cattivo tempo in Spagna, quest’ultima si ricordò del suo smisurato e giustificato orgoglio. Dopo sette secoli di lotta ai Mori per l’indipendenza, dopo tre secoli di sostanziale predominio continentale, non poteva finire tutto così, diventare una provincia – la più estrema se non si contavano le colonie – di un impero che nonostante l’infatuazione delle èlites liberali per gli ideali rivoluzionari era né più e né meno che un conquistador ben presto odiato come lo erano stati gli Arabi venuti al seguito di Al Tariq.

Il guerrigliero Juan Martin Dìez, detto el Empecinado (l’Intrepido)

Il guerrigliero Juan Martin Dìez, detto el Empecinado (l’Intrepido)

Conosciamo le vicende che seguirono anche e soprattutto grazie ai quadri di un artista che aveva simpatizzato per la ventata di modernità e di giustizia portata dai vicini francesi sulla punta delle loro baionette. Francisco Goya dipinse due delle sue opere d’arte più famose in quelle circostanze che fecero di lui un disamorato dei suoi vecchi ideali e addirittura un esule mal visto dai connazionali, per i quali era ormai un collaborazionista.

Il 2 maggio dunque il pueblo di Madrid insorse contro i francesi. Il tre maggio questi misero in atto la più feroce delle repressioni, giocandosi definitivamente l’appoggio locale sia nobiliare che popolare. Aristocrazia ed esercito cominciarono a tramare contro Napoleone e gli ultimi re Borbone, poco più che suoi fantocci. Ma nel frattempo, bande armate si riunirono nelle zone più interne e più impervie, dove le disciplinate armate francesi non potevano manovrare e si ritrovarono in grave difficoltà.

Tra il 1808 ed il 1814 gli spagnoli regalarono al mondo termini come guerrilla e partisanos e ne misero a punto le relative tattiche militari. Una vera e propria guerra di popolo, per bande armate, condotta attraverso la tecnica del mordi e fuggi capace di logorare all’infinito un esercito senza mai affrontarlo in campo aperto. Una guerra così il mondo non l’aveva mai vista.

Battaglia di Talavera, Arthur Wellesley diventa duca di Wellington

Battaglia di Talavera, Arthur Wellesley diventa duca di Wellington

Nemmeno Napoleone era pronto a combatterla. Quando poi nella penisola iberica sbarcò proveniente da Londra un condottiero che sapeva il fatto suo, Arthur Wellesley futuro duca di Wellington, i guerrilleros spagnoli trovarono anche un comandante in grado di dare un senso strategico sempre più efficace alla loro azione militare, coordinandola in modo letale per l’avversario. Fino a che Napoleone non si trovò risucchiato nella steppa russa, con la necessità di richiamare un po’ da dovunque risorse militari per evitare che invece che essere lui ad insediarsi sul trono a Mosca fosse lo Zar russo a sedersi sul trono di Parigi.

Nel 1814, Wellington aveva concluso la seconda Reconquista nella storia spagnola. E la parabola di Napoleone piegava verso la sua definitiva eclisse. La Spagna riottenne la sua indipendenza, anche se ormai le colonie sudamericane, che avevano sperimentato l’autogoverno dovuto al fatto che la Madrepatria era a sua volta tagliata fuori perfino dal governo di se stessa, erano perdute.

La penisola iberica uscì dalla guerra napoleonica (la peninsular war secondo la storiografia inglese) economicamente distrutta, e le sarebbe occorso un secolo e più per riprendersi, con ricorrenti sollevamenti militari intervallati a tentativi delle èlites liberali di salvare l’eredità positiva della rivoluzione francese, mediante la promulgazione di costituzioni che poi venivano revocate. Un drammatico e sanguinoso alternarsi di schieramenti e conducadores vari che sarebbe arrivata fino alla guerra civile del ventesimo secolo ed a Francisco Franco.

Ma la Spagna, che da centro di un impero si ritrovava di colpo ridotta a stato nazionale privo delle risorse economiche e politiche per adattarsi alla sua nuova dimensione, entrava nell’ultima fase del suo declino non più dorato con la consolazione di aver almeno offerto al mondo una nuova eredità, strappandola di mano agli stessi francesi che l’avevano brevettata e contro cui aveva dovuto combattere.

La guerra di popolo sarebbe entrata nella storia moderna come quella più difficile se non impossibile da fronteggiare per un qualunque invasore. Da allora partigianiresistenza e guerriglia sono stati termini ricorrenti e a volte fin troppo anche abusati nelle cronache di un mondo occidentale che da allora ha cercato faticosamente la sua strada tortuosa ed impervia per uscire fuori definitivamente dagli anciennes règimes e avviarsi verso un mondo veramente moderno.

Anche se, come aveva predetto Goya nelle sue visioni dipinte su tela, puntualmente il sonno della ragione avrebbe continuato a generare mostri.

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Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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