Diciamolo subito. A questa Spagna va ben più che l’onore delle armi. Alla fine, mentre Wembley diventa una bolgia azzurra e saltano anche le ultime restrizioni nei confronti della vita com’era prima e che fino a pochi giorni fa credevamo non avremmo rivisto mai più, gli occhi degli hombres di Luis Enrique hanno abbandonato ogni garra e sono velati di lacrime. Comprensibile, e viene quasi da essere solidali con loro. Stasera hanno giocato come meglio non potevano, come meglio è difficile che si possa in ogni parte del mondo, ma alla fine il cielo sopra Londra è tinto di azzurro. Jorginho ha ripetuto il film di Berlino, come Grosso è andato sul dischetto dell’ultimo rigore impassibile e con freddezza ha messo fine ai sogni spagnoli scatenando quelli italiani.
Diciamo subito anche questo. Come cornice a questa notte magica dell’Italia non poteva essercene una migliore di quella offerta da Wembley, nella notte in cui l’Inghilterra – intesa come paese – dà un bello schiaffo al mondo che annaspa ancora tremebondo nelle tenebre del post-Covid. In attesa di capire quanta gente entrerà nell’Imperial Stadium domenica sera, qualora l’Inghilterra – intesa come squadra – tenesse fede al pronostico superando la Danimarca nell’altra semifinale.
Il calcio sta tornando a casa, scrivono nuovamente sui muri di Londra. Lo fecero già nel 1996, e non portò bene a Gascoigne & c., costretti a lasciare via libera ad una Germania che non giocava bene ma batteva benissimo i calci di rigore. Stavolta l’auspicio travalica il mondo del pallone. Riguarda le nostre vite, a cui Londra offre l’antipasto di uno stadio pieno di gente che al posto delle mascherine ha i colori dipinti della propria squadra. Bianco, rosso e verde gli italiani, giallo e rosso gli spagnoli.
Non è esaurito Wembley, ma il colpo d’occhio del 25.000 presenti fa sembrare che lo sia. Netta preponderanza degli italiani, il doppio degli spagnoli, e lo fanno sentire. A differenza di quanto abbiamo fatto noi a Roma, gli inglesi hanno posto limiti abbastanza laschi per l’accesso allo stadio. Ricordiamocene, almeno in sede di giudizi finali. L’Inghilterra ha già vinto la coppa del coraggio e del fair play, e cercherà di portare a casa anche quella di Euro2020, the wandering tournament. L’Italia, che è arrivata ormai ad una partita da un sogno che insegue da 53 anni, cercherà di fare altrettanto, e magari di spingere il paese che la tifa ad esserle una buona volta alla sua stessa altezza.
Roberto Mancini, l’abbiamo detto più volte, ha dei conti in sospeso con la sua carriera di giocatore e con la sorte, che gli ha dato in termini di vittorie e soddisfazioni meno di quanto il suo talento avrebbe autorizzato a sperare. In questo stadio la sua Sampdoria perse una finale di Champion’s League che grida ancora vendetta. La perse contro il Barcellona, che allora non giocava il tiki taka ma il calcio totale all’olandese, e Guardiola era uno dei tanti ragazzini che si affacciavano al calcio. In Nazionale, il suo miglior risultato è stato una semifinale ad Euro1988 in Germania, allorché l’Italia che poi sarebbe scesa in campo per le notti magiche fu fermata da una Armata Rossa all’ultima sua storica apparizione, l’URSS del colonnello Lobanovsky che con due sberle rimise a posto i ragazzini di Vicini. Due anni dopo, a Italia 90, l’URSS già non c’era più, ma non c’era più neanche Roberto Mancini.
La partita che fa la differenza, e non solo per il risultato, Mancini se la gioca con il suo 11 base, per usare una terminologia cara a quel basket che pochi giorni fa ci ha dato la più grande delle soddisfazioni, caricando a dovere i colleghi del calcio. Confermati tutti meno ovviamente il povero Spinazzola, nel frattempo già operato ed in convalescenza. La Spagna risponde con i suoi fenomeni appena maggiorenni, come Dani Olmo e Pedri che a prescindere da come andrà a finire stasera sembrano avere in mano il futuro, e possono aprire un nuovo ciclo per le Furie Rosse, splendente magari come il precedente.
Tra le due squadre i precedenti si sprecano. Gli ultimi hanno arriso quasi sempre agli iberici, da quel quarto di finale del 2008 che si risolse ai rigori e vide gli errori decisivi degli eroi di Berlino di due anni prima, alla finale del 2012 che ci vide soccombere sotto la scoppola più grave mai subita dagli azzurri al cospetto della Roja, fino agli ottavi del 2016, che ci valsero il passaggio ai quarti e la Tour Eiffel illuminata di tricolore, anche se non un viatico sufficiente per arrivare in fondo. Ancora i rigori a metterci fuori gara, contro la solita Germania.
Stasera la posta in gioco è di nuovo la storia, basta vedere il volto sempre più teso del CT. Partita dopo partita, Roberto Mancini sorride sempre meno trincerandosi dietro una impassibilità che in realtà nasconde un comprensibile tourbillon interiore. Il Mancio lo sa di essere ad un passo dalla storia: l’uomo che riporta la Coppa Delaunay in Italia; l’uomo che ha riportato il calcio in Italia, quando ormai sembrava morto. Il calcio che torna a casa non ha solo Wembley come indirizzo di recapito, ed in questo domenica saremo pari agli inglesi.
In campo, i ragazzi in azzurro sono più spensierati, hanno giocato finora talmente bene da non aver timore di nessuno. Vincere aiuta a vincere, anche se stasera Azzurra è di fronte all’ostacolo più alto e più duro: la Roja, appunto. Ma i nostri nel riscaldamento si muovono al ritmo delle canzoni della loro tifosa Raffaella Carrà, venuta a mancare proprio nella vigilia del match che mette di fronte le due sue patrie, quella anagrafica e quella di adozione.
Poi è il momento degli inni, prima la Marcia Real che fa sempre la sua solenne impressione, poi il Canto degli Italiani, che regala sempre la sua commovente emozione, soprattutto quando sono in così tanti a cantarlo a squarciagola, dai giocatori alla panchina agli spalti gremiti di gente con addosso qualcosa di azzurro e di bianco, rosso e verde.
Poi ancora la stretta di mano tra Mancini e Luis Enrique, e finalmente la parola passa al pallone. Per 90 minuti Spagna e Italia dimenticheranno ogni parentela e affinità. Anzi, alla fine saranno 120, e non basteranno neanche.
L’Italia ha subito una brutta sorpresa, bastano cinque minuti per rendersi conto che del bel gioco che mette in mostra quest’anno i suoi avversari hanno il brevetto, e da tempo. La scuola iberica si palesa anche in questa sua seconda generazione di fenomeni, e gli azzurri si ritrovano a rincorrere un pallone che pare incollato ai piedi degli avversari.
Felix Brych, della federazione tedesca, lascia giocare arbitrando all’inglese ed in modo assolutamente imparziale. Risultato, la Spagna ha buon gioco a far valere le proprie qualità di palleggio indubbiamente superiori. Il primo tempo lo vince ai punti: 65% di possesso palla contro il 35% degli azzurri, percentuali rovesciate rispetto ai match precedenti. Ma qui, come detto, siamo al cospetto dei maestri. E qualcuno comincia a pensare che se ne vogliamo portare fuori le gambe anche stasera, bisognerà rimettersi a giocare all’italiana, difesa ferrea e contropiede micidiale, come quello che ci dette la vittoria nel 1994, Beppe Signori per Roberto Baggio, 50 metri di campo in fuga del Codino e rasoiata alle spalle di Zubizarreta. Peccato che stasera Baggio se la veda da spettatore a casa sua, e gli avanti azzurri, a cominciare dal generoso ma solitario Immobile, fanno quello che possono.
Se proprio si deve trovare un difetto a questa Spagna che va all’intervallo con il favore del pronostico se possibile raddoppiato, è che si tratta di una squadra leggerina, a tratti quasi leziosa, che non finalizza la gran mole di gioco svolta perché davanti ha ancor meno dell’Italia. Il falso nueve di Luis Enrique è una necessità, ed alla fine dà ai suoi compagni ancor meno punti di riferimento che agli avversari. Alla fine del primo tempo si conta un tiro in porta per parte, con buona pace del tiki taka e dei puristi di questo sport. Alla fine dei tempi regolamentari il conto sarà addirittura di 4 a 2 per l’Italia.
La quale Italia rientra in campo catechizzata da Mancini e dai dettami di una scuola che non può aver dimenticato Gianni Brera e le sue prediche sulle italiche virtù pallonare. Gli azzurri si mettono dietro a stoppare gli spagnoli con le buone o con le cattive, e appena possono ripartono come missili. Per l’assetto tattico delle due squadre, ci si aspetta che alla fine Lorenzo Insigne si inventi qualcosa nella prateria che spesso gli si apre sulla sinistra. Succede al quarto d’ora della ripresa, solo che non è Insigne a segnare il gol alla Insigne, ma il suo omologo della fascia destra Federico Chiesa, che da quando svaria su tutto il fronte d’attacco è diventato incontenibile. Il suo tiro ad effetto lascia di sasso Unai Sìmon e tutta la Spagna che credeva di essere destinata a realizzare il mantra ripetuto da Azpilicueta alla vigilia: attacchiamo, dominiamo ed alla fine segniamo. Succede proprio così, solo che alla fine, come spesso è accaduto nella storia, segnano gli italiani.
Con Chiesa che si inginocchia alla bandierina e Wembley che si trasforma in un urlo azzurro, il pensiero critico esita ancora ad abbandonarsi all’euforia e rimane inchiodato a quelle benedette lancette di orologio che sembrano girare più lente che mai. Mancano trenta minuti, e quando Luis Enrique fa scaldare Morata pensiamo che Sant’Antonio ci aveva fatto fino a quel momento fin troppa grazia. La Spagna non era andata oltre qualche rimpallo neanche fortunoso in area italiana, pratiche che Donnarumma aveva sbrigato con efficiente e sollecita freddezza.
Il match cambia con l’ingresso di colui che ha ereditato da David Trezeguet il ruolo di nostra bestia nera, Alvaro Morata, e con l’affiorare della stanchezza nelle gambe azzurre. Rincorrere il pallone è più dispendioso che non farlo girare a tocchetti, e quando scocca l’ottantesimo ci capita sempre più di frequente di accorgerci che sono molti dei nostri a non farcela quasi più.
Non è un caso che la Spagna pareggi nell’unica azione in verticale che il genio di Dani Olmo riesce ad imbastire avendo finalmente un terminale offensivo letale da innescare. Il triangolo con Morata apre a quest’ultimo un’autostrada, Gigio Donnarumma può solo scegliere da che parte buttarsi alla disperata, lasciando metri e metri di porta scoperti, e la frittata è agevolmente fatta.
A quel punto, gli stremati azzurri si ritrovano con una formazione imbottita di interditori entrati al posto dei giocolieri. Berardi è fresco, ma manca di cattiveria, avrebbe due volte l’occasione per chiuderla o quantomeno rimetterla sulla strada per l’Italia, ma esala tiri sui quali nemmeno Unai Simon può compiere qualcuna delle sue papere. In occasione del gol che segna in pregevole semirovesciata è purtroppo in netto fuorigioco, e le speranze azzurre di non andare ai rigori finiscono lì.
A quel punto, l’Italia si ritrova di fronte alla sua nemesi, la croce e delizia delle sue notti magiche del calcio. Da quelle del ’90 fermatesi sul piede tremante di Donadoni, a quelle del ’94 affidate al piede ferito di Baggio a quelle del ’98 affidate al piede ruvido di Di Biagio. A quelle del 2000, culminate in una serata in cui l’Italia fu dominata dall’Olanda dieci volte più che da questa Spagna, ridotta in dieci e sommersa da calci di rigore, tutti sbagliati dagli orange o parati da Toldo. E alla fine, ad invertire una tendenza a quel punto storica, er cucchiaio di Francesco Totti e l’apoteosi, purtroppo fermatasi poi all’ultimo minuto della finale Italia – Francia.
Ma gli azzurri, per quanto stravolti dalla stanchezza, mostrano ancora sguardi sorridenti e spavaldi. Sono gli spagnoli ad avere le facce più cupe. Per la terza volta in questo Europeo il loro palleggio superiore non è valso loro la vittoria nei tempi regolamentari. E ai rigori le loro gambe spesso tremano quanto e più delle nostre. Con la Svizzera però è andata bene, e sembra serata buona anche questa, allorché Locatelli mette sui guantoni a Unai Simon il primo tiro degli italiani.
Ma gli dèi stasera dicono Italia. Ci sono troppi conti in sospeso da saldare. Come Trezeguet a Berlino, tocca ai migliori di questa Spagna l’onere dell’errore fatale. Dani Olmo pareggia la cortesia di Locatelli mettendo alto, da quel momento gli azzurri non sbagliano più. A Belotti risponde Gerard Moreno, a Bernardeschi risponde Alcantara, a Bonucci vorrebbe rispondere Morata, ma il suo tiro è un ultimo respiro che si strozza nei guantoni di Gigio.
Va sul dischetto Jorginho, che come Grosso nel 2006 si porta sulle spalle un intero paese. Un paese, questa volta, che ha bisogno addirittura di rinascere, calcisticamente parlando. Jorginho trotterella la rincorsa con gli occhi fissi su Unai Sìmon, lo vede mettersi a sedere a sinistra e deposita la palla all’angolino destro.
Da lì in poi è una festa italiana di quelle che credevamo non avremmo rivisto più. Mancini davanti ai microfoni è una maschera impassibile, trattiene le sue emozioni per domenica e l’ultima delle partite che mancano perché entri nella storia e magari riceva anche il Cavalierato della Repubblica. A Wembley il cielo è azzurro, abbracci alla Spagna e tanti complimenti, giocando così può rifarsi già l’anno prossimo in Qatar.
Ma qui adesso ci restiamo noi. E comunque vada, contro L’Inghilterra padrona di casa che aspetta questa vittoria da più di noi, o contro la Danimarca che in queste circostanze ridiventa un drakkar pieno di vichinghi assetati di razzia, il nostro primo trofeo l’abbiamo già vinto. Abbiamo rivisto facce italiane dipinte dei nostri colori, senz’altra maschera che quella imposta loro da una incontenibile felicità.
Stavolta, le notti magiche continuano, fino all’ultima.
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