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Faber

Fabrizio De André (Genova, 18 febbraio 1940 – Milano 11 gennaio 1999)

Se ne andò nelle prime ore della notte dell’11 gennaio 1999. E in pochi mesi la nostra musica e la nostra giovinezza persero anche l’altra metà superstite, dopo aver detto addio a Lucio Battisti. Non potevano essere più distanti l’uno dall’altro, per cultura, interessi e storia personale, accomunati soltanto da una certa indole portata ad una eccessiva timidezza. Lucio si era negato al pubblico assai presto, Fabrizio gli si era concesso assai tardi, quando già c’era da tempo chi lo riteneva un grande poeta prima ancora che un grande cantautore, tanto da inserire alcuni suoi testi nei libri di testo scolastici. Finché un giorno, poco prima che il suo destino si compisse, Fernanda Pivano l’avrebbe definito, imbarazzandolo, «il più grande poeta in assoluto degli ultimi cinquant’anni in Italia». A quel punto, erano tutti d’accordo con lei.

Era figlio di piemontesi di antico lignaggio nobile e di origine provenzale (pare), i De André trapiantati in Liguria, a Genova, quartiere Pegli. Lo stesso dove viveva Gino Paoli. Lo stesso dove avrebbe stretto amicizia con un altro scavezzacollo come lui, Paolo Villaggio. L’amico del cuore che gli avrebbe affibbiato il suo soprannome leggendario: Faber. Niente di letterario, poetico, filosofico, niente assonanza con il suo nome di battesimo. Semplicemente il nome della marca di pastelli che lui prediligeva per disegnare, i Faber Castell che all’epoca tra i ragazzi in età scolastica andavano per la maggiore.

Assieme al futuro ragionier Fantozzi, Faber fece disperare i rispettivi genitori con una infanzia ed una adolescenza che oggi i biografi definiscono come fuori dagli schemi. Il più grande poeta italiano del dopoguerra attraversò la scuola con fatica, con più insufficienze che sufficienza, sottostimato dai professori come accade a tutti i geni. I suoi temi avevano il voto scritto in rosso, e lui già aveva in mente i testi di canzoni che un giorno avrebbero avuto un posto nella letteratura, ed eclissato i suoi stessi maestri, quelli veri, come quel George Brassens esistenzialista francese che gli avrebbe ispirato – oltre alla poetica ed alla musicalità iniziali – anche una certa predisposizione all’anarchia intesa come filosofia politica. Una posizione che gli avrebbe valso addirittura negli anni settanta nientemeno che l’attenzione dei servizi segreti italiani, il SISDE. Come John Lennon, lui non avrebbe potuto fare altro che meravigliarsi che i servizi non avessero di meglio da fare, con tutto ciò che era seguito a Piazza Fontana per sconvolgere, sconquassare, annichilire un intero paese.

Il padre Giuseppe l’avrebbe voluto maestro di scuola, come lui, o avvocato, come il fratello Mauro. Lui ci aveva provato, frequentando giurisprudenza e tentando poi la carriera scolastica quando nel 1962 gli era nato il figlio Cristiano dal primo matrimonio con Enrica Rignon. Ma a quel punto i suoi primi testi stavano già facendo breccia nel pubblico degli appassionati musicofili. La poesia e la musica lo reclamavano, e Faber seguì il destino che era scritto per lui: dalla sua prima canzone, La ballata del Miché, dal ritmo e dalla melodia decisamente francesizzanti, fino a quella con cui sostenne la prova d’esame d’ammissione alla SIAE Autori nel 1964, plagiando per sua successiva ammissione Le foglie morte di Jacques Prevert senza che peraltro nessuno se ne accorgesse.

A quel punto, aveva 24 anni ed era un poeta altrettanto grande di Prevert. E quando Mina poco tempo dopo interpretò la sua Canzone di Marinella, il grande pubblico lo adottò anche come cantautore e gli tolse qualsiasi incertezza circa il proprio futuro professionale.

Dei suoi anni trascorsi a cercare una strada diversa nel mondo avrebbe poi raccontato con giustificato compiacimento e ingiustificata modestia: «Lessi Croce, l’Estetica, dove dice che tutti gli italiani fino a diciotto anni possono diventare poeti, dopo i diciotto chi continua a scrivere poesie o è un poeta vero o è un cretino. Io, poeta vero non lo ero. Cretino nemmeno. Ho scelto la via di mezzo: cantante».

Del tempo lontano in cui aveva sbarcato il lunario con l’amico Paolo cantando e suonando sulle navi da crociera e probabilmente incrociando durante tali performances il giovane Silvio Berlusconi avrebbe da allora in poi parlato poco e malvolentieri.

Era uno che parlava poco di sé in generale, Fabrizio De André. Preferiva farlo in musica ed in versi, e non necessariamente in lingua italiana. La sua melodia e le sue parole erano ad un certo punto più mediterranee che italiane, ma comunque le capivamo tutti. Creuza de ma non aveva bisogno di sottotitoli. Le sue ballate che avevano regolarmente come protagonisti gli sconfitti, gli emarginati, i disgraziati, i Geordie e tutte le prostitute vere o presunte della nostra società avevano bisogno soltanto della nostra fantasia e della nostra disposizione d’animo ad ascoltarlo ad occhi chiusi. Magari semiassopiti all’ombra dell’ultimo sole come il suo Pescatore. Magari in fuga come il suo assassino, persi nel ricordo di qualche aprile della nostra adolescenza scivolata via come Marinella nel fiume della vita.

Era stato rapito dall’anonima sequestri sarda assieme alla seconda moglie Dori Ghezzi, la ex partner musicale di Wess con cui avrebbe costituito un corpo e un’anima fino alla morte. Quattro mesi in attesa del pagamento del riscatto da parte della famiglia, trascorsi ospiti di quell’Hotel Supramonte di cui sarebbe stato capace di raccontare con l’imperturbabile pacatezza conquistata con l’età, dopo le difficoltà caratteriali giovanili accentuate da un sistema scolastico che fuori dagli schemi non accettava nulla. Capace di provare empatia perfino per i propri carcerieri: «Noi ne siamo venuti fuori, mentre loro non potranno farlo mai».

La sua ultima copertina, quella di Mi innamoravo di tutto, disco live del 1997, lo ritrae ripreso dall’alto con l’immancabile sigaretta in mano in una fotografia scattata dalla moglie Dori. Il suo ultimo concerto a Roccella Ionica nell’agosto 1998 si interruppe quasi subito, con lui dolorante che non riusciva nemmeno a tenere la chitarra in mano. Le sigarette si erano scavate una strada di morte nei suoi polmoni. Il destino che si stava portando via in quei giorni Lucio Battisti reclamava anche lui, l’altra metà della colonna sonora della nostra giovinezza. La sua ultima trasferta, da cui non sarebbe ritornato, lo condusse l’Istituto Tumori di Milano. Al suo funerale, c’era mezza Genova e una parte del suo sterminato esercito di fan. Ragazzi invecchiati con i versi delle sue poesie/canzoni. E poi gli amici: Beppe Grillo, testimone di nozze con Dori Ghezzi, e l’immancabile Paolo Villaggio, che lo avrebbe salutato così: «Io ho avuto per la prima volta il sospetto che quel funerale, di quel tipo, con quell’emozione, con quella partecipazione di tutti non l’avrei mai avuto e a lui l’avrei detto. Gli avrei detto: ‘Guarda che ho avuto invidia, per la prima volta, di un funerale’».

La musica degli anni sessanta, settanta ed ottanta è stata soprattutto quella dei cantautori, minimalisti, impegnati, esistenzialisti, politicizzati, melodici, arrabbiati. Molti ci hanno portati vicini a comprendere il senso profondo della vita, almeno quello che potevamo percepire nei nostri anni verdi. Fabrizio De Andre’ è stato quello che della nostra vita, della vita in generale ci ha dato la poesia.

«Non doveva andarsene, non doveva. È stato il più grande poeta che abbiamo mai avuto.»

(Fernanda Pivano – 13 gennaio 1999)

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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