Una significativa immagine: il dimostrante dal gilet giallo indossa la maschera di Guy Fawkes resa celebre dal film V per vendetta
Quando i francesi scendono in piazza, qualcosa riportano sempre a casa. La loro storia dimostra che quando si mette contro il popolo, alla fine è sempre il governo a cedere. La protesta innescata dai cosiddetti Gilets Jaunes, i Gilet Gialli – che qualcuno ha già definito come una sorta di Movimento 5 Stelle transalpino – contro le tasse su benzina, elettricità e gas decise dall’amministrazione Macron può cantare vittoria. Il rinvio sine die delle accise sulla benzina ed il congelamento delle tariffe delle risorse energetiche che avrebbero dovuto scattare a gennaio sono un risultato acquisito, testimoniato per quanto obtorto collo dai resoconti della grande stampa borghese e a suo dire progressista, schierata di là dalle Alpi come di qua a favore di un fisco come quello dello Sceriffo di Nottingham e contro il tenore di vita della popolazione meno abbiente.
Per una volta, non siamo costretti a guardare i nostri cugini alla presa di una nuova Bastiglia con invidia. Ma semmai con interesse. La nostra Bastiglia noi l’abbiamo presa il 4 marzo, e per via elettorale. Un cambiamento di portata epocale, che potrebbe diventare in prospettiva il nostro 14 luglio, se il governo nato da quel voto riuscirà a mantenere le promesse fatte.
Stavolta i francesi arrivano secondi, o comunque nelle retrovie, perché il vento del cambiamento si è levato altrove. Non è un Maggio Francese a dare il la come nel 1968, ma un Marzo Italiano che a sua volta segue alla Brexit, a Visegrad ed alla voglia di inversione di rotta maturata su entrambe le sponde dell’Atlantico.
Ma i francesi, quando fanno le cose, non hanno mezze misure. E così vale la pena seguirli mentre vibrano quella che probabilmente è l’ultima e più poderosa spallata all’Unione Europea di cui i loro governi sono stati negli ultimi anni i più strenui sostenitori, in quell’intesa franco-tedesca che ora sta andando nell’oblio, se non in pezzi. La resa di Macron sulle tasse e sulle accise significherà per il suo paese uno sforamento superiore al 3% dei parametri di Maastricht. Adieu, mes amis. Auf wiedersen.
E adesso, m.sieur Moscovici, come si mette? Come si fa a continuare il pressing sull’Italia per un 2,4% che a questo punto, rispetto a quanto può succedere a Parigi, pone Roma sul piano di chi ha fatto appena un modesto sforamento fuori fido bancario?
La realtà è che c’é in ballo – nelle piazze affari come nelle piazze cittadine dove vive la gente comune – molto di più e molto di diverso da ciò che secondo addetti ai lavori quasi sempre cointeressati è sotteso alle cifre che circolano nelle conferenze stampa e nelle prese di posizione di Bruxelles sui conti pubblici italiani e non solo. Questi numerini, come li chiama efficacemente il vicepremier Salvini, hanno senso se presi con beneficio di inventario, e non considerati vincolanti per sacrificare sul loro altare la qualità della vita di intere popolazioni.
L’economia è una scienza esatta a condizione di limitare le sue equazioni e le sue previsioni a non più di tre giorni, o al massimo tre settimane. Chi pretende di sapere con certezza quale sarà la crescita di un paese o di un’area economica di qui all’anno prossimo, o addirittura ai prossimi tre, o mente perché appunto cointeressato a certe politiche piuttosto che ad altre, oppure è un cialtrone, un apprendista stregone, un ciarlatano di quelli che vendevano elisir miracolosi nelle piazzette dei paesi di una volta.
L’unica economia che ha dimostrato di funzionare nelle previsioni e nelle soluzioni, dalla Grande Depressione del secolo scorso a quella che ha fatto a fette il nostro tenore di vita durante la presidenza Obama negli USA e quelle di Merkel & Sarkozy nella UE, è stata quella keynesiana. Che, senza negare l’importanza dei numeri e degli impegni assunti da governi e popoli, ha risollevato situazioni disperate facendo scavare buche in terra e poi riemprle, anche a costo di aumentare i debiti nel breve periodo.
E’ quello che dovrà fare la Francia, è quello che vuole fare l’Italia, se i maestri di palazzo senza più patria come il francese Moscovici si mettono da parte e si contentano di seguire il proprio destino già segnato. In Francia, non c’é più un partito socialista che possa riaccogliere nella sua cuccia calda il commissario al bilancio altrui, e per di più l’anno prossimo – oltre alle elezioni europee che porteranno a Bruxelles quasi sicuramente una maggioranza non più di sinistra – è verosimile che si possa assistere alla crisi definitiva dei due pilasti dell’intesa che ha fatto di Maastricht un’altra Monaco come quella di Hitler del 1938. Per molti, un inferno senza speranza né prospettive.
A Berlino, la Merkel aspetta di sapere se le varie alternative fur Deutscheland che stanno sorgendo (e non solo in Germania, attenzione all’Andalusia dell’ex Hispania Felix, dove si afferma un partito di ispirazione quasi neo-franchista) si accontenteranno di mandarla a casa. A Parigi, il terzo presidente impresentabile della Cinquième République (dopo il marito di Carla Bruni che assomigliava al Borsalino di Jean Paul Belmondo e si comportava anche peggio, e il farfallone François Hollande che assomigliava ad una macchietta di Louis de Funes) che la medio-alta borghesia sedicente progressista aveva mandato a sbarrare la strada a Marine Le Pen ed al popolo che ancora non aveva tirato fuori dai cassetti i gilet gialli, aspetta di sapere se è verosimile che finisca il suo quinquennio, o se non dovrà piuttosto tornare nell’oblio da cui è stato tirato fuori l’anno scorso, per disperazione di qualcuno.
La Francia che si veste di giallo non è quella che il giovane marito della attempata professoressa si era illuso di mettere en marche. L’Italia gialloverde assiste interessata. L’Europa dei senza patria si gioca le ultime carte, consapevole dentro di sé che nel prossimo maggio, un Maggio Europeo stavolta, di colore rosso più o meno sgargiante e più o meno fasullo rimarrà ben poco.
I numeri, quelli veri e attendibili, dicono soltanto questo.
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