No, non credevo davvero che avrei visto rivincere la Coppa Davis di tennis all’Italia. Ero un ragazzino nel 1976 quando i Quattro Moschettieri Panatta, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli volarono a Santiago del Cile con le loro magliette rosse per sconfiggere la squadra di Fillol e Cornejo, il regime di Pinochet e soprattutto la realpolitik che voleva gli sportivi in grado di compiere scelte che ai politici non riuscivano.
Nel 1974 i moschettieri avrebbero dovuto boicottare il Sudafrica dell’Apartheid, e invece – giustamente – ci andarono a perdere in semifinale (si chiamava Finale Interzone, allora). Nel 1976 avremmo dovuto boicottare il sanguinario golpista che aveva dato il via ad una stagione politica e civile tra le più buie dell’intera storia del Sudamerica, e invece Panatta & c. se ne fregarono dei comunisti che li chiamavano milionari insensibili e seguirono Pietrangeli in una trasferta che colmò una delle principali lacune del nostro palmarés sportivo. Per la cronaca, due anni dopo in un’Argentina forse ancora più insanguinata del Cile si giocarono i Mondiali di Calcio, ma allora non volò una mosca, e quando Passarella il capitano della albiceleste vittoriosa andò a prendere la Coppa del Mondo dalle mani del boia Videla nessuno ebbe da eccepire.
Nel 1977 giocammo una finale normale, in un paese civile, che purtroppo per noi aveva fatto e faceva la storia del tennis molto più di noi, rappresentato da giocatori che giocavano sull’erba fin dalla nascita mentre noi la vedevamo più o meno come Paolo Bertolucci, mangime da mucche. Fu un 3-1 per loro che poteva essere per noi, ma laggiù, down under, si erano già scornati gli azzurri ai tempi di Nicola Pietrangeli e Orlando Sirola. Laggiù erano stati capaci di avere da scegliere anche tra dieci fuoriclasse tutti insieme, in fila dietro al più fuoriclasse di tutti, Rod Laver, che solo l’ipocrisia di un dilettantismo imbecille aveva tenuto fuori dalle competizioni nei suoi anni migliori, come nella boxe stava succedendo – per altri motivi – a Mohamed Alì.
L’Italia dei Quattro Moschettieri tornò in finale altre due volte. Ma nel 1979 eravamo ospiti dell’astro nascente USA John McEnroe, ingiocabile, e nel 1980 dell’astro nascente cecoslovacco Ivan Lendl, ma soprattutto della polizia cecoslovacca e di un regime che ancora era quello del muro di Berlino e di una compiacenza della federazione internazionale che permetteva ai furbetti slavi di tutto e di più. Solo il fuoriclasse Stan Smith nel 1972 era uscito vivo da Bucarest con la Coppa Davis sottobraccio, alla faccia di Nastase e di chi apprezzava i suoi gesti da guitto. Gli altri Oltrecortina ci avevano regolarmente rimesso le penne, noi più volte.
Dopodiché, una lunga attesa durata più di 40 anni, e costellata di sogni infranti sul più bello.
Ieri gli eroi di Santiago erano tutti alla televisione a commentare l’impresa dei loro nipotini. Certo, la Davis rivoluzionata dalla cura Piqué non è più lontana parente di quella che si giocava fino a pochi anni fa, e che trasformava il gioco più infernale del mondo, il tennis, in un inferno doppio, perché ti dava l’aggravante – o il plusvalore – di metterti sulle spalle i pesantissimi colori del tuo paese durante interminabili e poco remunerative trasferte.
Nel tennis, dice spesso quel Panatta che ieri dagli studi RAI cercava di nascondere una evidente commozione, sei da solo in campo, ma veramente solo. E’ l’unico sport in cui succede, con l’eccezione proprio della Davis in cui almeno un capitano non giocatore a bordo campo ti può fare qualche urlaccio o qualche complimento.
Nel tennis, il numero 1 del mondo non è mai sicuro di vincere. Come è successo a Djokovic nella semifinale, l’uomo d’acciaio può scoprirsi di metallo più debole nei momenti decisivi di un match che sembrava una volta di più per lui già vinto. Ma poi il ragazzino che ha 14 anni meno di te e gli stessi colpi pesanti ti annulla tre match ball e ti mette a sedere. La storia, la tua gloriosa storia, non è scesa in campo con te, è rimasta in albergo.
E così a Malaga – dove si giocano forse per l’ultima volta le finali di questa Davis ridotta ad una versione ancora più sbrigativa della Women’s Federation Cup (con tutto il rispetto per la nostra squadra femminile che nei lunghi anni della latitanza maschile ci ha colmati di gioia e di successi) – è la squadra italiana ad alzare l’insalatiera messa in palio per la prima volta nel 1900 tra british e yankees dal dottor Dwight Davis. Panatta eroe del 1976 e Camporese eroe degli anni 90 (quelli fermatisi spesso ad un passo dal sogno e conclusi poi malamente dalla finale spezzata nel 1998 dall’infortunio ad Andrea Gaudenzi che non permise all’Italia di sognare per più di un set) si commuovono. Ancora di più appare visibilmente commosso un Nicola Pietrangeli chiamato sul palco a festeggiare con i suoi nipotini la storia della sua vita e dello sport a cui è indissolubilmente legata. Sul piedistallo della Coppa oltre a Italia 1976 ci sono infatti incise un’Australia 1960 e 1961. Pietrangeli e Sirola tennero testa ai migliori aussies di tutti i tempi, ma non bastò. Così come non bastò nel 1977, al cospetto di un John Alexander più che mai bestia nera di Panatta.
Sono commossi tutti, a cominciare dai ragazzini (il più vecchio è Bolelli, 38 anni, ma se tiene duro Djokovic….), che forse soltanto nei prossimi giorni si renderanno conto fino in fondo di cosa hanno fatto.
Dopo la finale di Berlino del 2006, Marco Tardelli disse tra il commosso ed il faceto che finalmente era arrivata un’altra nazionale di calcio campione del mondo dopo la sua del 1982 e finalmente adesso si poteva sostituire la foto del suo celebre urlo – un po’ ingiallita dal tempo – con un’altra più recente. Panatta da studio sembra dire la stessa cosa. Con una certezza in più: se Yannick Sinner resterà questo è certo che avremo molte foto da scattare e appendere alle pareti della sede della Federazione e dei Circoli del tennis. Se i suoi compagni di squadra resteranno questi, la nazionale azzurra non sarà più una squadra forte, ma addirittura uno squadrone tipo – fatte le debite proporzioni – quello australiano degli anni 50-60. Se poi addirittura Berrettini ritrova se stesso…..
Credevamo che il tennis ormai fosse uno sport da muscolari moderni, una disciplina che ci aveva esclusi per sempre, risultando indigesta ai ragazzetti italiani troppo poco avvezzi a dannarsi l’anima in campo ed a soffrire. Beh, l’Arnaldi di ieri ha dimostrato che siamo noi spettatori che dobbiamo riabituarci a soffrire. Come ai tempi dei Quattro Moschettieri, delle finali down under, di Panatta che piegava Borg come Sinner ha piegato Djokovic.
Yannick Sinner……. Abbiamo invidiato a lungo la Germania che trovava per strada un Becker, la Croazia un Ivanisevic, la Spagna che di campioni – dai Sanchez ad Alcaraz passando per Nadal – ne produceva uno stillicidio, la Francia che ci faceva rabbia anche con le sue seconde e terze linee, l’Australia che non era più quella dei canguri dal braccio d’oro, ma intanto un Leyton Hewitt (il capitano non giocatore di ieri) te lo piazzava al primo posto del ranking ATP e lui se ne tornava a casa con due Coppe Davis, 1999 e 2003, che portavano il conto totale degli aussies a 28 vittorie su 48 finali giocate, secondi solo agli Stati Uniti con 32 su 61.
Abbiamo invidiato questi paesi che raccattavano fuoriclasse per strada come nulla fosse. Ci chiedevamo se sarebbe mai successo a noi. E’ successo. Yannick Sinner è il fuoriclasse del prossimo decennio, quello che quando Djokovic appenderà la racchetta al chiodo non avrà più rivali.
E’ un altro tennis, non vedremo più i virtuosismi di un Pietrangeli o di un Panatta, ma vedremo quelli, per chi se lo ricorda, di un Connors nostrano. Perché Yannick non perdona, ancor meno di Jimbo.
L’anno prossimo ci divertiremo da matti a seguire gli eventi tennistici. Un miracolo su cui fino a poco fa non avrebbe scommesso nessuno. Adesso siamo a scommettere sulla prossima grande vittoria, Slam o che altro, del nostro numero uno e perché no, dei suoi compagni di squadra che stanno respirando la sua stessa aria e che hanno cominciato ad avere fame di vittorie anche loro.
Mentre l’insalatiera torna finalmente a Roma, il branco azzurro sta per scatenarsi in tutto il mondo.
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