Quando eravamo piccoli, nei nostri sussidiari delle Elementari veniva chiamata la verde Umbria. Significava che l’unica delle regioni dell’Italia centro-meridionale senza sbocco al mare aveva mantenuto fino ai giorni nostri un corretto rapporto con la Natura, rimasto più o meno quello del tempo in cui aveva dato natali e spiritualità a San Francesco e sopravvissuto anche alle recenti e ingenti calamità naturali.
Da oggi l’Umbria è tornata verde in tutti i sensi. Compreso uno che era impronosticabile fino a poco tempo fa. I recenti scandali della sanità locale, uniti alla crisi economica in cui la regione versa da tempo amplificata dall’insofferenza di Madre Natura per la cattiva gestione umana dell’ambiente, hanno fatto sì che si tornasse a votare prima della scadenza naturale del 2020, e che lo si facesse mettendo sul banco degli accusati la forza politica che per 49 anni – a partire cioé da quel 1970 in cui le amministrazioni regionali divennero realtà nel nostro ordinamento giuridico–amministrativo – aveva monopolizzato i consensi: il partito prima comunista e poi democratico.
Donatella Tesei, avvocatessa eletta al Senato nelle liste della Lega, da stamattina è la nuova governatrice di quella che era considerata una delle ultime roccaforti rosse. La roccaforte è stata espugnata con numeri impressionanti, perché l’esercito con cui la senatrice Tesei ha realizzato l’impresa assomma addirittura al 57,5% degli aventi diritto al voto nella regione. E stavolta gli sconfitti non possono nemmeno invocare il beneficio del dubbio dell’astensionismo, perché il 65% dei votanti è una percentuale che non ammette discussioni.
Le cifre sarebbero da capogiro, se uno non avesse presente quanto si è speso il centrodestra nelle sue articolazioni durante la campagna elettorale in queste terre. La Lega di Salvini, che nelle precedenti amministrative era un partito da 3%, stavolta concorre al trionfo della governatrice Tesei con il 37%. Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni raggiunge per la prima volta la doppia cifra, un 10,4% con cui si lascia dietro non soltanto Forza Italia (al 5,5%) ma anche gli avversari del Movimento 5 Stelle, che conferma il suo calo costante in tutte le consultazioni elettorali seguite al 4 marzo 2018, ma che stavolta paga la scelta evidentemente indifendibile di fronte al proprio recente elettorato circa l’alleanza più o meno strategica con il Partito Democratico.
Il quale Partito Democratico tiene, come precisano i suoi esponenti, al 22,3%, ma è una tenuta molto triste se si pensa che non basta neanche per un istante ad addolcire la pillola dell’addio alle bandiere rosse ammainate dal Palazzo della Regione a Perugia.
Le liste civiche a sostegno si equivalgono da una parte e dall’altra. Risultato finale, dunque: Tesei batte Bianconi 57,5% a 37,5%. 20 punti di distacco, percentuali da Valle Padana, mentre invece siamo nel cuore di quell’Italia Centrale che al PD era sembrato di poter ancora eleggere a propria ultima ridotta, grazie al patto civico messo sul tavolo del governo nazionale presieduto da Giuseppe Conte, e poi fallito di fronte al corpo elettorale.
Il quale Conte, oltre che dai venti sfavorevoli che gli soffiano contro un po’ dappertutto (dal Russiagate al Financial Times e ai fondi vaticani) crediamo che sarà stato spettinato anche dalle dimensioni del risultato di questo test, che lui aveva improvvidamente destituito di fondamento nei giorni scorsi riuscendo ad offendere sia l’elettorato umbro che quello di parte della sua regione d’origine, nella fattispecie il leccese. «Se salto io non può esserci altro premier», commenta stamani il professore prestato alla presidenza del consiglio. L’impressione è che non ci possa più essere ormai un governo giallororosso.
Il silenzio di Renzi, defilatosi fin dalla campagna elettorale, è tutto sommato molto meno rilevante del fragoroso invito di Salvini al presidente della repubblica a «non fare più finta di niente» e a prendersi le proprie responsabilità. Questa Repubblica di colpo si scopre non essere più tanto parlamentare come volevano il mondo accademico e quello politico interessato appena due mesi fa.
In questo quadro che d’improvviso si chiarisce e si semplifica, l’altro silenzio assordante è quello del Movimento 5 Stelle. Di nuovo si mormora di leadership di Di Maio messa in discussione. E’ l’esistenza stessa del Movimento ad esserlo, e d’altra parte se salta il capo politico (che altre colpe francamente non ha, se non quella di essere di statura inferiore a quanto i tempi richiederebbero, e non parliamo di altezza fisica, perché in tal caso Giorgia Meloni non sarebbe arrivata dov’é e dove può festeggiare di essere da stanotte….), i Cinque Stelle rimangono in mano al loro fondatore. Un vecchio pagliaccio che credeva d aver ridotto l’Italia ad una trasmissione di avanspettacolo di quelle che andavano in voga quando ancora non si era piccato di essere un politico.
E adesso? San Francesco è anche patrono d’Italia, non mettiamo limiti né alla Provvidenza né alla voglia di cambiamento degli italiani. Ma senza scomodare i santi, sono i fanti ormai ad essere in marcia. Novantasei anni fa, per coincidenza, sempre da Perugia partiva una marcia che avrebbe avuto come destinazione ultima Roma. Non vogliamo stabilire paragoni che hanno senso soltanto nella testa del Ministro dell’Incultura Franceschini. Se non uno. Anche allora la sinistra aveva profondamente disgustato e impaurito gli abitanti di questo paese.
Ai giorni nostri esiste ancora una via democratica da percorrere, e il centrodestra sembra averla imboccata di corsa. Il treno del cambiamento è più inarrestabile dell’alta velocità, e chi ci ha provato rischia di fare la fine di Toninelli.
Prossime fermate, Bologna, e poi Firenze passando per mezza Italia. Il fortino del PD è ormai sotto assedio.
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