Era bella Halina, di una bellezza che sfuggiva ai canoni estetici della Belle Epoque. In mezzo alla quale, come riferimento puramente temporale, era nata l’11 novembre del 1900. Dalle sue parti, a Rawa Mazowiecka che oggi fa parte della Polonia e allora dell’Impero Russo (perché la Polonia politicamente non esisteva), la Belle Epoque non arrivava e non sarebbe mai arrivata. Ma lei era bella a modo suo, con quegli occhi che sorridevano da soli sprizzando fascino e personalità (se fosse nata in occidente magari l’avremmo vista con Alice Paul e le Suffragette, un’altra di quegli Angeli d’Acciaio che stavano rovesciando prepotentemente canoni femminili e ipocrisie maschili), quel berretto rosso sbarazzino e fuori ordinanza olimpica e quel corpo che sembrava fatto per donare l’ennesima attrice al cinema o l’ennesima modella alla moda.
1 metro e 80 per 65 kg. Erano misure da mannequin. Ma dalle sue parti la moda era un lusso. La sua era piuttosto una famiglia di sportivi, il padre Jakob, il fratello Tadeusz e la sorella Czeslawa erano tutti tennisti praticanti. Nella Polonia post-bellica chi non se la diceva con la racchetta aveva poche alternative. O gli sport invernali o l’atletica, possibilmente indoor visto il clima. Le piste da sci erano troppo lontane da casa, Halina provò dunque equitazione, pattinaggio e nuoto mentre studiava alla Facoltà di Filologia dell’Università di Varsavia, dimostrando di avere anche un bel cervello in quella testa così graziosa. Quasi per caso, scoprì di avere un talento nel lancio del disco, e quella fu la sua strada. Una strada che portava all’oro olimpico.
Già, le Olimpiadi. De Coubertin le aveva riesumate nell’epoca moderna, con tutti i pregi e difetti dell’era antica. Nella vecchia Olimpia le donne non gareggiavano, per quanto le greche fossero assai più emancipate delle loro coetanee, romane comprese. Il Comitato Olimpico Internazionale sbarrò dunque la strada alle femmine in nome di un purismo e di un classicismo che il mondo e il ventesimo secolo si apprestavano di lì a poco a dichiarare abbondantemente demodé.
Non era più il tempo in cui le donne si facevano dire di no, e chinavano il capo in nome di un’economia domestica e di una morale che facevano ormai acqua da tutte le parti. A Parigi in occasione della seconda edizione dei Giochi moderni erano state ammesse con condiscendenza in due discipline, il golf ed il tennis, passatempi altoborghesi prima ancora che veri e propri sport. Ma le donne ormai volevano la terra rossa, la pista, il sudore, la velocità, lo sforzo e la resistenza al pari dei maschi. Le donne volevano l’Atletica, leggera e pesante. La regina delle Olimpiadi.
Ancora a Parigi nel 1924 fu risposto loro picche, malgrado la pasionaria Alice Milliat, che la storia ricorda come la de Coubertin in gonnella, si fosse battuta allo stremo affinché il veto maschilista fosse rimosso dal C.I.O. e dalla I.A.A.F., la federazione internazionale dell’Atletica.
Saputo che neanche a Parigi le donne avrebbero corso, lottato, lanciato o saltato, la Milliat non si perse d’animo ed organizzò due anni prima, nel 1922, sempre nella capitale francese, la prima edizione delle Olimpiadi Femminili, poi ribattezzate Giochi Femminili per la scomposta reazione di uno stizzito Comitato Olimpico Internazionale. La Milliat fece buon viso a cattivo gioco, e i suoi Giochi – ci si perdoni il bisticcio di parole – si rivelarono un successo clamoroso: cinque rappresentative nazionali in gara (Stati Uniti, Gran Bretagna, Svizzera e Cecoslovacchia, oltre alle padrone di casa francesi) si sfidarono in undici specialità dell’Atletica Leggera davanti a ben 20mila spettatori, dando luogo al miglioramento di ben 18 primati mondiali. Il successo fu bissato nella seconda edizione, disputata a Goteborg nel 1926 con numeri ancora più strabilianti e incoraggianti.
Il C.I.O. incassò il ceffone, e decise che era l’ora di aggiornare le sacre regole di Olimpia. Alle successive Olimpiadi del 1928 che si svolgevano ad Amsterdam, la patria storica della tolleranza e dell’emancipazione, le donne furono ammesse a gareggiare in cinque discipline dell’Atletica, tra cui il lancio del disco. Ed è a questo punto della storia, o per meglio dire della leggenda, che Halina Konopacka entra in gioco.
A volte il destino premia i più meritevoli. Al meeting di Varsavia del maggio 1926 Halina si era già messa in luce come l’enfant prodige della disciplina consacrata dal discobolo Mirone, impadronendosi del record mondiale con la misura di 34 metri e 15 centimetri. Pochi mesi dopo, aveva vinto i Giochi Femminili di Goteborg con 37, 31, che tuttavia non era record mondiale perché nel frattempo, la tedesca Milly Reuter aveva fatto segnare uno strepitoso 38,34.
La resa dei conti tra le due campionesse del disco doveva aver luogo proprio ad Amsterdam, ai Giochi della IX^ Olimpiade. Era la prima gara in cui scendevano in campo le donne, quella che si svolse il 31 luglio 1928 allo Stadio Olimpico di Amsterdam. Di conseguenza alla vincitrice quel giorno sarebbe spettato di occupare una pagina storica negli annali olimpici e non solo.
Halina scese in pedana decisa a far sua la medaglia d’oro dopo che si era ripresa il record assoluto a Varsavia nel settembre dell’anno precedente con 39,18. L’elegantissimo e fuori ordinanza berretto rosso che faceva risaltare la sua pelle scura ed i suoi occhi marroni, nonché i suoi tratti vagamente e finemente tartari, valsero alla sua bellezza l’appellativo di Miss Olimpia ed il corteggiamento da parte potente Ministro del Tesoro del governo polacco Ignacy Matuszewski, destinato a diventare il suo amore ed il suo marito un anno dopo le Olimpiadi.
Ma quel giorno, Halina aveva occhi solo per la leggenda che i suoi bellissimi occhi scorgevano già delinearsi all’orizzonte. Lanciò a 39,62, migliorando ulteriormente il proprio record mondiale. La seconda classificata, l’americana Coppeland, si fermò a 37,08. La Reuter si fermò a 35,86, non riuscendo nemmeno a salire sul podio. Al collo di Halina fu messa dunque la prima medaglia d’oro vinta da una donna nelle Olimpiadi moderne. A completare il trionfo del movimento sportivo femminile, in tutte le altre quattro specialità in cui le donne gareggiavano si registrò un consistente miglioramento dei record esistenti, segno che i tempi erano stati decisamente maturi perché si avverasse il sogno di Alice Milliat.
La battaglia più importante era vinta, ma la storia di Halina Konopacka non finiva lì. Dopo aver mietuto altri allori nei Campionati Europei e nei Giochi Femminili (che sarebbero sopravvissuti fino al 1938 malgrado ormai l’ammissione delle donne alle Olimpiadi li avessero resi superflui), Halina appese il disco al chiodo nel 1931, dedicandosi da quel momento a vecchie passioni come lo sci e lo sport di famiglia, il tennis.
E come la scrittura, dove rivelò un notevole talento in campo poetico ed una notevole profondità di pensiero nelle collaborazioni con le più importanti riviste del suo Paese, trattando temi che approfondivano l’analisi delle relazioni tra uomo e donna, soprattutto dal punto di vista della gelosia.
Quando la Wehrmacht invase il suo paese nel 1939, Halina Konopacka aiutò il marito Ministro del Tesoro a mettere in salvo l’oro della Banca di Polonia in Francia prima e negli Stati Uniti poi. Costretta all’esilio, lì sarebbe rimasta anche dopo la fine della guerra e la morte di suo marito nel 1946. Donna poliedrica dagli infiniti sfaccettature e talenti, a New York avrebbe aperto una scuola di sci, una scuola d’arte, uno studio di pittrice (sotto lo pseudonimo di Helen George) ed una boutique da stilista, dove rinverdì i fasti di colei che un giorno era stata soprannominata Miss Olimpia. Rimasta vedova per la seconda volta nel 1959, sopravvisse per altri trent’anni senza mai fare ritorno nella vecchia patria, quella il cui nome aveva iscritto nel medagliere olimpico ad Amsterdam.
Ma la Polonia non si era dimenticata di lei, ed alla sua morte avvenuta in Florida il 28 gennaio 1989, pochi mesi prima del suo ottantanovesimo compleanno e della caduta del Muro di Berlino, le conferì postuma la Croce d’Argento al Merito per i servigi prestati a favore dello Stato.
Restano di lei soprattutto quel nome iscritto per la prima volta nell’albo d’oro olimpico a nome e per conto proprio e di tutte le altre donne. E quegli occhi che ancora oggi ci sorridono luminosi e traboccanti di charme e di personalità, da una foto ormai ingiallita dal tempo che non ha ancora perso e non perderà mai il suo fascino struggente.
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