Happy birthday, mr. Rocco. La cosa che ci piacque di più quando lei arrivò e si presentò ad una Firenze accaldata, stralunata, incredula di essere Dio solo sa come alla fine di un incubo, fu quella sua risposta all’ennesima domanda di un giornalismo, quello fiorentino, che proprio non ce la fa a smettere di essere stucchevolmente ossequioso (a scuola si diceva ruffiano, e chissà che in quel termine lapidario non ci fosse più verità di quanta ce ne hanno insegnata poi i nostri pur bravi e forbiti professori di italiano).
Il reggimicrofono di turno le chiese se in America si facesse chiamare Rocky. Lei rispose, secco ed orgoglioso: i miei genitori mi hanno chiamato Rocco, e io mi farò chiamare sempre così.
Standing ovation, allora e per sempre. I suoi genitori la portarono in America, negli States, a cercare quella fortuna che in Calabria non arrideva proprio, alla sua come a molte altre famiglie di allora, di prima e di dopo. E lei fortuna l’ha fatta, adesso è il CEO di Mediacom (in Italia si dice A.D.), e Wikipedia la definisce italian billionaire businessman.
Enough is enough. A 71 anni di età e non sappiamo quanti di professione, che cosa può desiderare di più dalla vita? Uno che fa colorare di viola la torre del Nasdaq a New York soltanto per far sapere che si è comprato la Fiorentina, di là dall’Oceano, nella patria dei suoi avi e degli avi del soccer, del calcio?
Niente. Perché è il massimo. Non tanto l’aver conquistato l’America, comunque il sogno di decine di milioni di persone attraverso gli ultimi quattro secoli, quanto per averlo fatto mantenendo il proprio nome: Rocco. Un nome che trasuda difficoltà estreme ma legittimo orgoglio, nel raccontare la vita di un ragazzo partito senza niente ed arrivato di là nella condizione più svantaggiata possibile (scansandosi di poco Ellis Island, chiusa dal governo americano pochi anni prima che mamma Commisso portasse Rocco ed i suoi fratelli a raggiungere il padre Giuseppe, che faceva da qualche anno il falegname in Pennsylvania). E che adesso può addirittura vantarsi di non avere bisogno di Wall Street per trovare i soldi che gli servono per la nuova impresa.
Questo ragazzo, poco prima di compiere la settantesima delle sue primavere, alla fine è tornato al paese. E’ sbarcato a Firenze e si è preso la Fiorentina in uno dei momenti più deprimenti della sua lunga storia. Lo zio d’America, lo chiamammo tutti allora, perché ci sembrava proprio il protagonista della più classica e suggestiva delle favole. La storia stessa della Fiorentina sembrava diventare improvvisamente una favola, grazie a lui ed a quelle sue esternazioni che – esuberante come molti suoi connazionali sia che siano rimasti di qua o siano emigrati di là dall’Atlantico – non ci ha fatto mancare fin dal primo giorno.
Buon compleanno, e l’augurio è che questa settantunesima candelina le porti il dono più prezioso. Qualcosa che ancora le manca, che la vita che pure le ha sorriso ampiamente ancora evidentemente non le ha dato. Pare strano dirlo a uno che si è fatto strada, con mezzi assolutamente legali per quanto è dato sapere, nella jungla di cemento e di chissà che altro che è la Little Italy nordamericana. Ma vede, il fatto è che alla favola dello zio tornato dall’America non guasterebbe aggiungere un po’ di equilibrio, di character balance, come dicono dalle sue parti negli USA. Quando parla e perché no, anche quando agisce come CEO della Fiorentina, che è una cosa molto ma molto più complicata che gestire la Mediacom, per non parlare dei Cosmos di N.Y.
A Firenze alle parole ci stiamo attenti. Dire che i soldi non sono un problema, e poi spenderli male come è capitato di fare a lei in questo anno e mezzo, può fare più danni di una alluvione, e lei sa o dovrebbe sapere che da queste parti di alluvioni ce ne intendiamo. Sono frasi che tornano indietro come boomerang, se ad esse soprattutto non seguono poi i fatti giusti. Quando Pontello disse che avrebbe «cancellato dal calcio i metalmeccanici di Torino» (intendendo con ciò la famiglia Agnelli e la FIAT) fece più danni con il senno di poi che se avesse rotto il proverbiale specchio in casa sua.
Nessuno nasce imparato, dicono dalle sue parti, quelle di Marina di Gioiosa Ionica, dove lei è nato pochi anni dopo che anche la famiglia di Robert De Niro partisse da Ferrazzano, Molise, e andasse a dare i natali al proprio rampollo nella Little Italy che vi accomuna. Pare strano dirlo ad uno che oggi comanda Mediacom e probabilmente una bella fetta del mondo dell’informatica. Eppure è così. Il calcio, soprattutto quello italiano, è una cosa molto diversa e se possibile più complicata dell’informatica, del soccer e del business così come lo intendete nel New Jersey, dove adesso lei abita.
Il calcio è una bestiaccia, e Firenze ha la pretesa da sempre di domarle, simili bestiacce. A prescindere che ci riesca o meno, ormai. Ma vede, dire ai fiorentini «state calmi, in fondo sono cinquant’anni che non vincete niente», significa partire con il piede sbagliato, ed infilarlo subito in una pozzanghera.
Dire che «il male della Fiorentina sono gli opinionisti» (i giornalisti, ndr, e lasciamo stare che in qualche caso si meritano simile giudizio tranchant) e che «staremo a vedere quanti di loro entreranno nel mio centro sportivo e nel mio stadio», è una cosa proprio brutta. Non ce ne voglia e non si offenda, non è proprio il caso, ma ci suona tanto come quel «vi mando Luca Brasi» sibilato da Don Vito Corleone. Non si può sentire proprio.
Lungi da noi un simile paragone, per carità, non se la prenda. Se poi lo fa, per la verità le partite noi ce le guardiamo pagando il biglietto d’ingresso, senza dover ringraziare nessuno. Ci permettiamo soltanto di dire che, se d’ora in avanti quando parla magari rivolge prima una preghiera al santo patrono di Marina di Gioiosa Ionica – non uno da poco, San Nicola di Bari, nientemeno – e poi apre bocca, siamo sicuri che migliorerà sicuramente la comunicazione, si manterrà il feeling con la città e perché no, in quella polverosa bacheca viola finirà magari per aggiungersi qualcosa. Il tempo stringe per tutti. Lei ha settantun’anni, molti di noi tifosi – invecchiati in quei cinquant’anni di attesa di cui ci ha fatto a modo suo menzione – ne hanno pochi di meno.
Schifo non ci farebbe, come si dice dalle nostre parti. Poi faccia lei. Chi era seduto prima di lei sulla sua sedia di chairman, aveva promesso lo scudetto entro il 2011. E’ andata come è andata, ma la regola generale è che è molto meglio non promettere nulla se non si sa poi di poter mantenere. Perché i soldi non saranno un problema, ma le parole sì, e a Firenze ce le ricordiamo tutte. Ma proprio tutte. Si può sbagliare l’acquisto di un centravanti, ma mai la dichiarazione programmatica a cui poi i tifosi ti richiamano e ti chiedono di far fede.
Il Rocco che piace ai fiorentini è un altro. Quello che risponde: i miei genitori mi hanno chiamato così, io sono e sarò sempre Rocco. Non c’è bisogno di dire altro. E’ un nome che Firenze rispetterà volentieri, a condizione che lei rispetti quello di Firenze, insieme alle sue vestigia, ai suoi monumenti. al suo labaro. Che in cinquant’anni avrà anche visto aggiungersi pochi orpelli, ma ha ancora quel colore viola vintage su cui, se non l’ha ancora capito, qui non è proprio il caso di scherzare.
Happy birthday mr. President.
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