Automobilismo

I figli del Mito

Da che mondo è mondo, un bambino italiano appena comincia a camminare inizia a sognare di correre sulla Ferrari. E’ una Ferrari l’automobilina a pedali, o magari adesso a motore, che i genitori gli regalano. E’ della Ferrari l’adesivo che il bimbo italiano appiccica dovunque, a cominciare dalla macchina del padre o dalla cartella di scuola, insieme a quello della squadra di calcio preferita. E’ alla Ferrari che il bambino italiano, una volta cresciuto e diventato ragazzo, e poi uomo, continua a dedicare i propri sogni. Chi può (pochi), se la compra. Chi non può (la maggior parte), se la vede – e se la tifa – alla televisione.

La Ferrari è la più antica e prestigiosa delle scuderie della Formula 1, l’unica che ha partecipato a tutte le edizioni del campionato del mondo, in 69 anni. Vinse il primo Gran Premio della sua storia il 14 luglio 1951 con José Froilan Gonzales, il Toro delle Pampas, superando la prestigiosa scuderia che aveva tenuto a battesimo il giovane pilota Enzo Ferrari, l’Alfa Romeo, a Silverstone, ex aeroporto da cui decollavano gli Spitfire durante la Seconda Guerra Mondiale, orgoglio dell’automobilismo inglese e luogo dove l’automobilismo italiano si è tolto alcune delle più grandi soddisfazioni.

La prima bandiera a scacchi della sua storia, Silverstone 1951

La prima bandiera a scacchi della sua storia, Silverstone 1951

A quell’epoca ancora la leggenda di Tazio Nuvolari, Enzo Ferrari, Juan Manuel Fangio si seguiva attraverso i giornali, perché la televisione non c’era. Quando poi arrivò, fu la Ferrari ad andare in crisi, e stette 14 anni senza vincere, dal 1961 al 1975. La rinascita Ferrari, era il 1975, portò il nome di uno sconosciuto ragazzo austriaco, Andrea Nikolaus Lauda, detto Niki, preso per scommessa dall’Ingegnere Enzo Ferrari e da Luca di Montezemolo, che Agnelli aveva messo in FIAT a seguito dell’entrata in compartecipazione azionaria.

Lauda riportò il Cavallino sul tetto del mondo e l’automobilismo italiano ai livelli di eccellenza a cui una volta era abituato. Ma entrò nel cuore dei tifosi italiani ancora di più l’anno dopo. Dominò il mondiale del 1976 fino al Nurburgring, quando – Il 1° agosto – la macchina, una Ferrari pressoché perfetta, gli sfuggì di mano andando a schiantarsi e prendendo fuoco. Per 45 secondi Niki Lauda rimase tra le fiamme. Fu salvato dai colleghi che coraggiosamente si precipitarono a tirarlo fuori dall’abitacolo senza aspettare i soccorsi. La sua faccia non si salvò, la sua vita sì.

Aveva un vantaggio tale che quando tre mesi dopo tornò incredibilmente a correre, sembrò che potesse vincere lo stesso il mondiale, tenendo alle spalle il suo principale avversario, l’inglese James Hunt della McLaren. Ma all’ultima gara in Giappone, al Fuji, la pioggia scrosciante rese proibitive le condizioni di gara. Niki decise che per quell’anno di coraggio ne aveva avuto abbastanza e si ritirò. Hunt finì quinto, e per un punto diventò campione del mondo.

Niki Lauda e James Hunt, il grande Rush del 1976

Niki Lauda e James Hunt, il grande Rush del 1976

I tifosi compresero il momento di Niki Lauda. La Ferrari no. Forse Enzo apprezzava troppo il coraggio come valore assoluto per comprendere fino in fondo quel suo pilota straordinario, ma poco spettacolare (secondo i parametri dell’automobilismo eroico di una volta). O forse ormai avevano preso il sopravvento logiche aziendaliste più FIAT che Ferrari. Oppure, fu Niki a non sentirsi tutelato e compreso e ad accentuare il divario. Fatto sta che, nel 1977, Lauda e Ferrari rivinsero il mondiale, mentre Hunt e Andretti facevano a sportellate per tutta la stagione, ma un attimo dopo annunciarono la separazione.

Niki annunciò il ritiro a fine 1979, dopo due anni in Brabham, mentre Jody Sheckter vinceva il mondiale per Maranello e Gilles Villeneuve cominciava la sua cavalcata in rosso che ne avrebbe fatto la leggenda più struggente e incredibile dopo quella di James Dean. Per la Ferrari cominciarono altri 20 anni di calvario.

Villeneuve morì a Zolder nel 1982, dopo aver chiesto troppo al destino in più occasioni. I grandi piloti, Prost, Senna, e perfino Niki Lauda redivivo (e vincitore di un incredibile campionato per mezzo punto nel 1984!) preferivano correre per la McLaren, contro cui combatteva l’outsider Williams di Jones, Mansell & C. Nel 1990 Alain Prost illuse tutti, finendo a fare a ruotate con Senna e compromettendo la grossa chance che si era costruito nella stagione.

L’industria italiana automobilistica era in grave crisi, e si vedeva anche nelle corse. Fior di piloti si alternavano sulla monoposto di Maranello, che però non andava neanche a spingerla. Un camion, secondo la definizione di Alain Prost. La Ferrari preferì licenziare Prost, piuttosto che i progettisti, anticipando una consuetudine futura della FIAT.

Nel 1995 Gianni Agnelli si ricordò che la Ferrari era una sua partecipata, che Luca di Montezemolo se ne era già occupato con successo e che forse bastava trovare dei degni successori a Lauda e Forghieri per tornare a combinare qualcosa. Enzo Ferrari era morto nell’agosto del 1988. L’eredità era tutta sulle spalle della FIAT. La leggenda Ferrari non poteva finire così.

Michael Schumacher e Ross Brown

Michael Schumacher e Ross Brown

A Kerpen, in Germania, era nato l’erede di Niki Lauda. Si chiamava Michael Schumacher, aveva già vinto due mondiali con la Benetton di Briatore (che non fece storie all’Avvocato per cedergli il suo gioiello). Dall’Inghilterra arrivò Ross Brown, che trasformava in oro tutto quello che progettava. Dalla Francia arrivò Jean Todt, uno dei pochi veri eredi di Napoleone Bonaparte.

Per tre anni si trattò di lottare fino all’ultima giornata. Nel 1997 vinse Jacques Villeneuve, un altro figlio del Mito. Nel 1998 e 1999 vinse Mika Hakkinen, il finlandese volante. Nel 2000 Ferrari e Schumacher erano in sintonia tale che Michael decise di farsi i capelli rossi, per festeggiare la vittoria. La macchina gli andava addosso ormai come un vestito. La McLaren resistette fino a Monza, a due Gran premi dalla fine, poi cedette. E fino al 2004 si trattò soltanto di capire con quanto anticipo il tedesco e il suo Cavallino volante avrebbero vinto il campionato.

Chissà se i record di Michael e della sua Ferrari saranno mai battuti da nessuno. Il tedesco che sembrava non avere avversari trovò il suo erede presunto nel 2005, per merito sempre del solito Briatore (coté Renault, stavolta), e perse clamorosamente lo scettro. Fernando Alonso, primo spagnolo a diventare campione del mondo di F1, veniva da Oviedo nelle Asturie, e da anni di anonimato. Messo a bordo di una macchina che volava, spiccò il volo anche lui.

Nel 2005 la Ferrari si era fattasorprendere. Fernando vinse facile. Nel 2006 invece la Ferrari c’era. Michael Schumacher lottò con classe, rabbia e determinazione. Avrebbe vinto se il motore della Ferrari non l’avesse piantato in asso alla penultima corsa. Ma Fernando era lì, con la sua Renault, pronto a raccogliere il favore della sorte. Così sembrò, un passaggio di consegne voluto dal destino stesso. Finita l’era Schumacher, cominciava l’era di Alonso.

O così almeno si credeva. Fernando credette di trovar dapprima fortuna alla McLaren, ma gli preferirono Lewis Hamilton. Sdegnato dal trattamento ricevuto, Fernando riparò nuovamente alla Renault, ma quando chiamò Maranello lui un attimo dopo era lì, al cancello. Hamilton era l’uomo da battere, la McLaren prima e la Mercedes poi erano le macchine a cui la Rossa si doveva equiparare, per vincere. Con il terzo incomodo, il binomio Red Bull – Sebastian Vettel a complicare le cose. E con lo scontro tra Luca di Montezemolo e Sergio Marchionne a renderle ancora più complicate.

Sebastian Vettel

Sebastian Vettel

La storia di Alonso alla Ferrari si è di fatto consumata senza riuscire a capire, nel marasma organizzativo, se è mancato qualcosa alla macchina, oppure al pilota, oppure alla gestione tecnico-tattica della Scuderia. Fatto sta che si è consumata, e la stessa cosa è successa – una volta avvicendato il pilota spagnolo con quello tedesco che aveva trionfato quattro volte con l’outsider Red Bull, l’erede conclamato di Michael Schumacher – con Sebastian Vettel. E allora non può più essere colpa della sorte.

Manca sempre qualcosa, un millimetro, un giro in più, un po’ di fortuna, un po’ di attenzione. Nella galleria di ritratti cominciata con Francesco Baracca ed Enzo Ferrari, dopo quel 2007 in cui fu aggiunto a sorpresa quello di Kimi Raikkonen vincitore tra i due litiganti della McLaren, il prossimo si fa attendere, e sicuramente neanche questo, l’anno del campionato di Formula Uno rivoluzionato dal Covid (ndr., non è un nuovo propulsore, anzi) sarà l’anno buono.

Trentadue anni senza il Drake. Quattordici senza vittorie.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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