IL COMUNISTA LIBERALE
“Non possiamo non dirci liberali”. Con questa frase, retorica come tutto nel suo stile, Giorgio Napolitano aveva riassunto la sua vita in apertura della lunga intervista concessa ad Eugenio Scalfari pochi giorni dopo la sua rielezione a Presidente della Repubblica e pochi giorni prima di compiere 88 anni. Doveva essere la prima intervista privata concessa dal vecchio Presidente al termine del suo mandato e, presumibilmente, della sua lunga e controversa carriera politica, un bilancio della propria vita, del XX secolo che ha attraversato, del XXI° il cui sviluppo successivo stava fortemente condizionando. Risultò invece, clamorosamente, la prima intervista pubblica concessa dal nuovo Presidente, nelle stanze del Quirinale dove si era appena reinsediato poco dopo aver prestato giuramento ad una repubblica e ad un popolo italiano più sbigottiti che mai.
C’era un sacco di gente quella sera in cui fu rieletto presidente a manifestare inferocita in Piazza Montecitorio. Ce n’era peraltro molta di più a Budapest a manifestare nelle strade il 4 novembre 1956 quando i carri armati sovietici arrivarono a stroncare i sogni di libertà del popolo ungherese. La storia di Giorgio Napolitano si è snodata tra queste manifestazioni, egualmente frustrate anche se in modo decisamente diverso. Nei giorni successivi alla repressione della rivolta ungherese fu proprio il giovane deputato napoletano, in rapida ascesa grazie al favore personale nientemeno che dell’allora leader comunista Palmiro Togliatti, a rendersi autore di una delle prese di posizione più spietate contro gli insorti, elogiando quell’intervento sovietico che aveva “non solo contribuito a impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, ma alla pace nel mondo”.
Cominciò così la carriera politica dell’uomo che sarebbe diventato il primo presidente della repubblica eletto due volte, oltre che il primo presidente della repubblica proveniente dal mondo post-comunista. Il P.C.I. dopo i fatti di Budapest visse al suo interno la sua prima grande crisi, con una frattura tra quanti vedevano negli ungheresi dei “teppisti controrivoluzionari” e quanti cominciavano a chiedersi invece se valesse la pena sognare quel paradiso dei lavoratori che aveva mandato in Ungheria più uomini e carri armati (200.000 e 4.000 rispettivamente) di quanti ne avesse mandati Hitler in Unione Sovietica nel giugno del 1941. La frattura fu in qualche modo ricomposta negli anni successivi, per manifestarsi di nuovo dopo la morte di Togliatti allorché nel 1968 fu la volta della Cecoslovacchia di ribellarsi all’U.R.S.S. e fare la stessa fine dei compagni ungheresi di 12 anni prima.
In tutti quegli anni Napolitano aveva prosperato, salendo fino al rango di vicesegretario del partito insieme a Luigi Longo (figura carismatica di ex-partigiano). A suo dire, in questi anni era maturata la crisi interiore che da fedele alla linea l’avrebbe portato a convertirsi al riformismo di Giorgio Amendola (figlio del liberale Giovanni, martire per mano dei fascisti), che con i tempi storici e i metodi bizantini tipici del centralismo comunista stava elaborando la presa di coscienza che il capitalismo non fosse un sistema da abbattere, ma piuttosto da riformare stando al suo interno e cercando di migliorare progressivamente le condizioni di vita delle classi lavoratrici. Era una svolta che nei paesi anglosassoni e nella Repubblica Federale Tedesca era avvenuta fin dagli anni 40 e 50 con il passaggio alla Socialdemocrazia ed il rifiuto dell’Internazionale Comunista. Nel P.C.I. ancora a fine anni 60 se ne discuteva aspramente e in maniera inconcludente. La parte riformista in ogni caso non era certo quella prevalente.
Quando anche Praga fu occupata dai russi, la spaccatura all’interno del mondo comunista italiano esplose insanabile. Il gruppo che faceva capo alla rivista Il Manifesto, Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Aldo Natoli, Luciana Castellina, Lucio Magri, Valentino Parlato e altri si posero in aperto dissidio con la Segreteria del partito, nel frattempo finita nelle mani di Enrico Berlinguer che aveva rimontato e superato proprio Napolitano. I dissidenti furono espulsi e dettero vita alla sinistra extraparlamentare italiana, Berlinguer criticò l’U.R.S.S. senza metterne in discussione l’alleanza, Napolitano dette vita a una vera e propria corrente alla destra di un partito che fino a quel momento si era vantato di non prevedere correnti. Fu chiamata, con una nota di disprezzo da parte dei suoi avversari interni, la corrente dei “Miglioristi”, di coloro cioè che non volevano più la rivoluzione dal capitalismo ma si accontentavano di un suo miglioramento.
Per tutti gli anni 70 e 80, Giorgio Napolitano sembrò essere diventato un esponente minoritario e in disgrazia di un partito che stentava ad adeguarsi a tempi che stavano prepotentemente cambiando. La sua attività principale consistette in un giro di conferenze in Gran Bretagna, Germania (dove erano gli anni della ostpolitik, l’apertura all’Est sovietico, di Willy Brandt) e perfino negli Stati Uniti (fu il primo esponente comunista ad avere il visto nel 1978) perlopiù incentrate sul tema dell’evoluzione della sinistra europea verso l’Eurocomunismo e delle prospettive della socialdemocrazia nel Vecchio Continente.
Ebbe di fatto anche un ruolo sostanziale di mediatore-ambasciatore tra campi ancora formalmente contrapposti, il P.C.I. (a cui Berlinguer aveva fatto digerire l’ombrello atomico della NATO e lo strappo da Mosca dopo l’invasione dell’Afghanistan ma che stentava a trarne le conseguenze politiche), il P.S.I. che sotto la guida di Bettino Craxi aveva preso la leadership del campo riformista e rimesso in un angolo i comunisti dopo gli anni del compromesso storico ed il delitto Moro, la NATO che viveva gli anni della recrudescenza della Guerra fredda con Reagan e la Thatcher. Fece scalpore la dichiarazione dell’ex segretario di stato americano Henry Kissinger nel 1986, secondo cui Giorgio Napolitano era il suo comunista preferito.
NAPOLITANO I°
Dopo la morte di Enrico Berlinguer e ancor più dopo che sotto i colpi della Perestrojika di Gorbaciov morì anche l’Unione Sovietica, sembrò di nuovo che il tempo del comunista liberale Giorgio Napolitano fosse venuto. Come avrebbe detto Boris Eltsin (e non solo lui), però, il comunismo non era riformabile, né quello sovietico né quello italiano.
La base una volta di più avrebbe preferito uno dei “suoi”, duri e puri, respingendo ancora l’uomo del dialogo e del compromesso con la “destra”. Fu Alessandro Natta a diventare segretario del P.C.I. dopo Berlinguer, e a Napolitano non restò che continuare la battaglia iniziata per il cambio di nome e ragione sociale del Partito: da Partito Comunista Italiano a Partito Democratico della Sinistra. Battaglia tardiva, che sarebbe stata vinta e poi vanificata da Achille Occhetto, esponente della nouvelle vague post-Berlinguer che avrebbe rottamato (almeno in apparenza) il P.C.I. e mandato per sempre in soffitta la Falce ed il martello.
Nel 1992, un anno dopo la nascita della Cosa post-comunista ed in piena Tangentopoli, toccò a lui succedere a Oscar Luigi Scalfaro, nominato Presidente della Repubblica, come Presidente della Camera dei Deputati. Fu il primo incarico istituzionale della sua vita, e già allora non avrebbe mancato di causare sconvolgimento e scalpore con alcune sue importanti decisioni. Da presidente, Napolitano negò l’accesso agli atti della Camera alla Guardia di Finanza che indagava per conto del Pool Mani Pulite sui bilanci dei partiti politici e su presunti compensi irregolari percepiti da parlamentari.
Decisione formalmente ineccepibile secondo una visione asettica del diritto pubblico, ma in completa controtendenza rispetto ad un’opinione pubblica che sollecitata da Tangentopoli chiedeva conto dell’impiego legittimo o meno di quelli che il giudice Di Pietro aveva definito brutalmente ma efficacemente “i nostri soldi”.
Quando poi si trattò di votare l’autorizzazione a procedere contro il leader socialista Craxi, Napolitano ratificò la decisione dell’Assemblea che l’aveva respinta, ma subito dopo – con decisione che non mancò di assumere un connotato inevitabilmente polemico e “mirato” – dispose che analoghe votazioni si tenessero in futuro in forma palese, innovando così ad una prassi parlamentare ultrasecolare.
Questa decisione ebbe ovviamente il plauso di un’opinione pubblica ormai largamente ostile a quello che veniva definito il “Parlamento degli inquisiti”, ma parve un voltafaccia ai suoi colleghi con i quali aveva intrattenuto cospicui rapporti ultraventennali. Lo stesso Craxi non mancò di farglielo rimarcare, allorché durante la deposizione al Processo Cusani (alla fine, l’unico processo celebratosi per Tangentopoli e che finì per diventare di fatto un processo alla classe politica della Prima repubblica) lo accusò apertamente di aver preso parte al sistema di corruzione generalizzato, avendo fatto parte di un partito che non aveva mai fatto mistero di ricevere aiuti economici da uno stato estero per di più nominalmente ostile, l’Unione Sovietica.
Dopo la vittoria di Berlusconi nel 1994, Napolitano, tornato ad essere un semplice parlamentare del PDS (per quanto di spicco) ebbe il plauso del neo Presidente del Consiglio per il discorso ufficiale in rappresentanza del suo partito nel dibattito sulla fiducia. Per quanto simile plauso non fosse granché condiviso dal partito in nome del quale Napolitano aveva parlato, il rapporto con Berlusconi era stato tuttavia instaurato ed era destinato a mantenersi più che buono per almeno i successivi 15 anni.
Dopo la fine del primo governo Berlusconi, Napolitano fu poi ministro dell’Interno per Romano Prodi. Il suo periodo al Viminale viene ricordato principalmente per due motivi: l’aver promosso insieme a Livia Turco quella legge che istituendo i centri di permanenza temporanea per gli immigrati clandestini aprì di fatto le porte del nostro paese all’invasione degli extracomunitari irregolari, e l’aver scarsamente vigilato su Venerabile Licio Gelli, Gran Maestro della P2, che fuggì all’estero il giorno stesso (28 aprile 1998) della condanna definitiva per strage e altri delitti da parte della Cassazione.
Dopo la caduta di Prodi, nel 1999 fu eletto al Parlamento Europeo, mentre al Quirinale saliva il suo amico Carlo Azeglio Ciampi che alla scadenza della legislatura, nel 2005 lo nominò Senatore a vita, insieme al designer di autovetture Sergio Pininfarina.
Un anno dopo, credendo di stabilire una continuità con la apprezzatissima presidenza Ciampi, la maggioranza parlamentare in quel momento in mano all’Ulivo di Prodi, lo elesse Presidente della Repubblica alla quarta votazione. L’ultimo pezzo del Muro di Berlino era caduto, e un ex comunista saliva per la prima volta al Quirinale.
La Presidenza Napolitano si aprì in pratica all’Olympiastadion di Berlino, dove alla sua presenza gli azzurri di Marcello Lippi vinsero il 9 luglio 2006 il quarto titolo mondiale di calcio della storia d’Italia. Ma più che a quella di Sandro Pertini, che aveva assistito alla vittoria del terzo nell’82 al Santiago Bernabeu di Madrid, la sua presidenza era destinata almeno per i primi cinque anni ad assomigliare a quelle incolori, notarili, eccessivamente concentrate sugli aspetti formali e formalistici del proprio ruolo di un Giovanni Leone o di un Francesco Cossiga prima di diventare il picconatore.
In realtà, Giorgio Napolitano fu da subito assai più interventista di quanto sembrasse a prima vista, intervenendo pesantemente nelle varie guerre tra le Procure in qualità di Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura (i casi Woodcock e De Magistris furono clamorosi) e soprattutto intervenendo nelle varie guerre intestine all’Ulivo, cercando di salvare dapprima Prodi e poi comunque la legislatura a maggioranza di sinistra, con un incarico a Franco Marini degno dei giorni migliori (o peggiori) della Prima Repubblica. Ma era nella legislatura successiva alla vittoria elettorale di Berlusconi nel 2008 che la Presidenza Napolitano avrebbe dispiegato i suoi effetti – è il caso di dire – più devastanti, conquistandosi a torto o a ragione un posto di clamoroso rilievo nella storia di questo paese.
LA MONARCHIA COSTITUZIONALE DI RE GIORGIO
Luglio 2011. Il superministro dell’Economia Giulio Tremonti annuncia al paese che la locomotiva Italia non ha mai tirato così forte e che l’economia del nostro paese è tra le più sane e solide del mondo. Gli italiani possono andare in ferie tranquilli, la crisi è un’invenzione di chi vuole minare l’azione di governo e con essa i buoni effetti sulla ripresa italiana dopo le bolle speculative americane del periodo 2007-09.
Gli italiani in ferie ci vanno, più o meno tranquilli come sempre. Al massimo al ritorno – credono – troveranno qualche balzello in più o qualche bolletta rincarata, come sempre. E’ difficile peraltro non credere a un Tremonti apparso fino a quel momento un genio della finanza mondiale, uno dei probabili prossimi Premi Nobel per l’Economia.
Al ritorno, gli italiani trovano la crisi economica più spaventosa della loro intera storia. E un Presidente della Repubblica che con volto grave e voce costernata annuncia che il paese si trova sull’orlo di un baratro a cui confronto l’8 settembre era roba da ragazzi. Che l’Europa – prima ancora che la nostra dignità nazionale e la necessità di assicurare un futuro alle prossime generazioni – ci chiede scelte dolorose, difficili e irrinunciabili.
E’ un uomo da sempre amante della retorica Giorgio Napolitano. Avrebbe fatto la sua figura nell’epopea risorgimentale o dannunziana, i suoi discorsi avrebbero rivaleggiato con quelli di Camillo Benso conte d Cavour, di Vittorio Emanuele II, di Francesco Crispi o perfino del Vate, nei suoi momenti più alti ed ispirati. Ebbene, ci vuole tutta la sua retorica migliore per far digerire ad un popolo italiano frastornato, stordito dal precipitare di una situazione che neanche credeva esistesse, tutta una serie di cose che in altri tempi e soprattutto in altri luoghi avrebbero forse scatenato reazioni di piazza o altre manifestazioni di quelle che solitamente vengono associate al termine democrazia.
Margaret Thatcher è stata uno dei più forti premier della storia inglese, eppure fu abbattuta da una serie di dimostrazioni popolari allorché la gente comune nel suo paese decise che la Poor Tax andava contro il diritto comune e la giustizia. Parigi ogni pochi anni rivede le barricate nelle strade, allorché il governo francese si azzarda a riproporre qualche provvedimento impopolare, come la contestatissima riforma della scuola superiore che, insieme ad altre cose, nel 2005 costò la poltrona al primo ministro Raffarin.
In Italia, nel mese e mezzo circa che occorre alle Istituzioni per informare il popolo che da locomotiva siamo improvvisamente diventati fanalino di coda dell’Europa, appena un gradino sopra la Grecia in bancarotta e costretti per sopravvivere ad adeguarsi a una serie di diktat di ispirazione franco-tedesca, non succede niente di tutto ciò. Siamo abituati a sopportare, e il Presidente Napolitano questo lo sa bene, dall’alto dei suoi oltre sessant’anni di vita politica ha visto le rivolte di piazza a Budapest e a Praga (inneggiando a chi le soffocava). In Italia al massimo ha visto l’Autunno Caldo e la Strategia della Tensione, roba da niente al confronto. Sa che la svolta che ha in mente avrà successo, il popolo stringerà i denti e la cinghia, e con ogni probabilità lui avrà il suo ritratto nella galleria dei veri o presunti Padri della Patria, dal Risorgimento in poi.
Non si saprà mai da dove è partita veramente la fantomatica telefonata di Angela Merkel che secondo la leggenda lo mise al corrente che l’Europa non tollerava più la permanenza al governo italiano di Herr Berlusconi. Non si sa quanto c’è di vero in quella leggenda, e soprattutto da quale cilindro uscì la soluzione che il Presidente pose davanti al paese perché l’Europa ce lo chiede. Sta di fatto che l’8 novembre 2011 Napolitano accetta le dimissioni di un Berlusconi che non ha più la fiducia del Parlamento, che il giorno precedente ha visto andare in fumo in Borsa il 30% dei titoli della sua Mediaset e non si sa quanto dei titoli dello stato di cui è premier. E’ chiaro che qualcuno di molto potente non lo vuole più, come è chiaro che qualcosa nell’assetto politico-economico europeo sta precipitando. Quello che non è chiaro è ciò che succede dopo. Tutti, dalla Grecia alla Spagna all’Irlanda tornano a votare, scegliendo – a torto o a ragione – nuovi esecutivi più confacenti alle nuove necessità. Noi no.
Come se in Italia fosse ancora in vigore lo Statuto Albertino e la forma di governo monarchica, con una operazione perfettamente in linea con quella che portò il Maresciallo Badoglio a succedere al Cavalier Benito Mussolini, Giorgio Napolitano si inventa senatore a vita l’ex-commissario U.E. Mario Monti (fino a quel momento un oscuro travet della politica economica più legato alle grandi banche d’affari internazionali che al paese che ha rappresentato) così come il suo predecessore Ciampi aveva designato a suo tempo lui. E due giorni dopo gli conferisce l’incarico di Presidente del Consiglio.
E’ un governo tecnico, secondo una tradizione italiana dei tempi di crisi che da Badoglio fino a Giuliano Amato ce ne ha fatte vedere – e inghiottire – di tutti i colori. Ma di solito si trattava di pochi mesi, giusto il tempo per arrivare alle elezioni successive e per gestire l’ordinaria amministrazione. Qui invece no, c’è qualcosa che non va, e da subito. Passi la dichiarazione iniziale di Monti, è una bellissima giornata (per chi? per lui forse, non per chi sta perdendo in massa il lavoro o vede bruciarsi in poche settimane risparmi della vita di più generazioni), passi il sostegno (genuino o obbligato) di tutte le forze del Parlamento o quasi a lui e alla sua politica di “sudore, lacrime e sangue”. Quello che non va davvero è l’intenzione dichiarata di questo governo che ha avuto solo il voto di Giorgio Napolitano di porre mano a tutta una serie di riforme strutturali ed istituzionali per le quali la Costituzione rimandava a ben altre procedure, tra l’altro coinvolgenti necessariamente i cittadini.
Di tutto ciò, nella retorica di colui che comincia ad essere chiamato re Giorgio I (il primo a farlo è il Times di Londra, nientemeno) non ce n’è traccia. Solo richiami alla necessità di sacrifici sempre maggiori, di destini comuni europei insindacabili, di riforme istituzionali che un parlamento di esautorati non può e non potrà mai fare. E tante strette di mano a quella Angela Merkel e a quel Nicolas Sarkozy che se la sono ridacchiata in pubblico al nome di Berlusconi, senza rendersi conto che era alla faccia di un paese intero che ridevano. O forse sapendolo benissimo, come lo sa quel Monti che è fisso a casa loro, che elimina le prospettive di futuro di milioni di persone (lui che ogni mese guadagna settantamila euro circa), lui che al pianto di chi non ha più lavoro ostenta il pianto del ministro del lavoro Elsa Fornero.
E alla fine un solo scatto d’orgoglio, un’unica volta in cui il Presidente si ricorda di rappresentare gli italiani, quando dopo le elezioni del 2013 si trova in Germania e il leader della SPD Peer Steinbruck (che deve incontrarlo) non trova di meglio che dichiarare che gli italiani hanno eletto due clown, Grillo e – di nuovo – Berlusconi. Visita annullata, e ci sarebbe mancato altro che il contrario.
Le elezioni cadono nel periodo conclusivo del suo mandato, con il semestre bianco che complica un’impasse politica pressoché totale. Non si dimette in anticipo come Cossiga, non si ricandida come qualcuno gli chiede, da destra e da sinistra. Sarebbe l’ora di prendere il posto nella galleria dei ritratti. Ma evidentemente resistere a certe pressioni e a certi richiami non si può. Re Giorgio è destinato a succedere a se stesso.
NAPOLITANO II°
Narra la leggenda, ovviamente non suffragata da alcun riscontro documentale concreto, che la somiglianza fisica tra l’attuale Presidente della Repubblica e l’ultimo Re d’Italia Umberto II di Savoia non sia affatto casuale, sottintendendo una discendenza reale, ancorché illegittima, per colui che il Times ormai ha ribattezzato Re Giorgio e un noto settimanale politico italiano, scimmiottando la prestigiosa rivista americana Time, ha nominato “uomo dell’anno 2011”. Di leggende simili è pieno il mondo politico, come l’altra che vuole il giornalista Bruno Vespa figlio naturale del Duce (concepito durante la sua prigionia al Gran Sasso), anche in questo caso con nessun altro fondamento che una certa rassomiglianza.
Che Giorgio Napolitano fosse fuori dagli schemi lo si poteva intuire fin da quando Henry Kissinger lo definì il suo comunista preferito. E ancor prima di diventare migliorista, forse fin dagli esordi in politica. La Svolta di Salerno del 1944 lo aveva visto impegnato con il gruppo che fece rientrare clandestinamente in Italia Palmiro Togliatti, colui che sarebbe diventato il suo mentore una volta affiliato al P.C.I. Togliatti era un maestro della politica fuori dagli schemi, al limite della spregiudicatezza. Il suo appoggio clamoroso ad una monarchia traballante (e nelle cui patrie galere era morto pochi anni prima lo scomodo rivale Antonio Gramsci), per quanto dettato da ragioni tattiche, mostrò ad una generazione di comunisti che quando il fine giustificava i mezzi non c’erano regole o schemi che tenessero.
Il destino reale di Napolitano più che nella genetica era scritto nell’esperienza politica, dunque. Troppo giovane per far parte di coloro che scrissero la Costituzione, ha fatto in tempo a farsi promotore di provvedimenti che potrebbero averla stravolta per sempre. Dopo l’annus mirabilis 2011 in cui cavò dal cilindro il governo di salute pubblica di Mario Monti (mentre negli altri paesi europei analoghi governi venivano più propriamente cavati dalle sorgenti naturali, le urne elettorali), il bello aveva ancora da venire, per dirla con Barack Obama, un altro presidente di repubblica assai amante della retorica fine a se stessa.
Nel febbraio 2013, una delle legislature più controverse e sofferte era finalmente arrivata a scadenza, ma le urne elettorali – non più rimandabili o evitabili – avevano dato come responso uno stallo clamoroso: entrambe le Camere divise in tre parti uguali tra Partito Democratico, Popolo delle Libertà e Movimento Cinque Stelle, la nuova formazione fondata dallo showman Beppe Grillo su cui si era riversato il malcontento e la protesta di chi non aveva da ringraziare il salvatore della patria Mario Monti e il suo deus ex machina del Quirinale e tuttavia non se la sentiva di ingrossare le fila dell’astensione (corrispondente ad un altro quarto dell’elettorato).
La pantomima dell’incarico a Bersani, giustificato da quei pochi voti in più presi dal PD al fotofinish elettorale (complice anche il meccanismo di attribuzione dei seggi non a caso definito Porcellum), trascinato per quasi un mese senza esito dall’interessato tra il rifiuto di alleanza ricevuto da Grillo e quello opposto ad un Berlusconi seduto sulla sponda del fiume, era poi stata seguita dall’incredibile nomina dei cosiddetti Dieci Saggi, un organismo di cui non si trova traccia in nessun dettato costituzionale né in alcuna prassi conseguente. L’escamotage, che di altro non si trattava chiaramente in quel momento, poteva spiegarsi soltanto come un voler prendere tempo in attesa della scadenza del mandato presidenziale, non potendo a causa del semestre bianco e comunque non volendo Napolitano sciogliere di sua iniziativa le Camere.
Il 15 aprile, un mese prima di quella scadenza, il Parlamento in seduta comune si riunì per eleggere il nuovo Presidente, che sarebbe stato il dodicesimo della storia. Il gioco stavolta era chiaro: trovare qualcuno che andasse bene sia al centrosinistra (determinato a non perdere l’esiguo vantaggio elettorale) che al centrodestra (determinato a far fruttare la sua posizione di ago della bilancia) e che tagliasse fuori i Cinque Stelle, più che mai determinati ad agire in funzione anti-sistema ed anti-casta. Tra le figure proposte allo scopo, non era infrequente quella di un Napolitano bis, a cui peraltro l’interessato in un primo momento aveva risposto picche. A quasi 88 anni, l’inquilino del Colle sognava di ritirarsi a occuparsi dei nipoti, e con lui e per lui lo sognava probabilmente tanta gente che non aveva molto di che ringraziarlo per questa patria salvata a così caro prezzo negli ultimi due anni.
La Costituzione italiana non dice niente a proposito della rielezione del Presidente in carica. E com’è noto, nel diritto ciò che non è espressamente vietato è permesso. I costituzionalisti in una prima fase si affannavano a sostenere che i padri costituenti non desideravano in linea di principio la rielezione, un mandato lungo quattordici anni sarebbe stato troppo lungo. Ma a parte il fatto che se i costituenti desideravano una cosa del genere avrebbero potuto scriverla e nessuno avrebbe potuto impedirglielo, i costituzionalisti di mestiere trovano le giustificazioni quando le cose sono già successe. Due mesi dopo i loro discorsi sarebbero stati di segno del tutto diverso.
Nelle prime votazioni, la situazione precipitò in maniera tale da scompigliare tutti i giochi. La nomenklatura PD presentò alcuni candidati su cui non era d’accordo nemmeno con se stessa, rimediando una figuraccia epocale e forse compromettendo seriamente lo stesso avvenire del partito. Dapprima Franco Marini e poi Romano Prodi furono esposti al pubblico ludibrio di una bocciatura nata principalmente in casa propria. Nel secondo caso, la sera del 19 aprile l’aria che si respirava nella sede PD era di disperazione. E fu allora che il cavalier Berlusconi decise di agire, calando l’asso.
Colui che da due anni si era posto come il salvatore della patria non poteva resistere alla sollecitazione di un nuovo intervento in tal senso. L’offerta di una riconferma di Napolitano, avanzata dal PDL e prontamente accettata da un PD in stato preagonico, fu accolta nel breve volger di una notte dallo stesso Napolitano. Per spirito di servizio ovviamente. Ogni obiezione costituzionale cadde come per magia, il 20 aprile il presidente uscente fu riconfermato, stabilendo un record storico grazie ai voti dei democratici e del centrodestra. Si consumava l’ultima farsa, che vedeva l’ex comunista Rodotà sostenuto dal Movimento Cinque Stelle e dagli ex alleati del PD Sinistra Ecologia e Libertà contro il suo partito che presentava un altro ex comunista ma voluto da Berlusconi.
Con questo viatico poco rassicurante, Giorgio Napolitano prestò il suo secondo giuramento da Presidente della Repubblica il 22 aprile 2013. La sera prima a Montecitorio una folla inferocita fu controllata con una certa apprensione dalle forze dell’ordine schierate a difesa del palazzo, mentre Beppe Grillo, che aveva promesso di essere in piazza con i manifestanti, fu fermato da una telefonata di qualche autorità di pubblica sicurezza che gli sconsigliò la comparsata per motivi di ordine pubblico.
Nel discorso di insediamento, Giorgio Napolitano dette un ultimatum alle forze politiche che l’avevano rieletto che meritava oggettivamente una sorte migliore fin dal giorno dopo essere pronunciato, malgrado l’applauso scrosciante e surreale ricevuto sul momento dall’auditorium. Ma del resto, uno dei suoi primi atti fu la nomina del governo Letta, da lui incaricato sulla base delle cosiddette larghe intese e poco tempo dopo ribattezzato ironicamente il governo senza fretta. Ed era più che evidente che ciò faceva parte del pacchetto comprendente la sua stessa rielezione.
L’uomo che aveva compiuto da poco 88 anni e a cui non c’era alternativa, secondo la nostra classe politica, per succedere a se stesso era ed è il simbolo di un mondo e di un’epoca che sono arrivati alla scadenza, ma che non vogliono o non possono abdicare a se stessi, sopravvivendosi secondo un fenomeno storico già osservato più volte. Del resto, la stessa storia ci insegna che sono i popoli in genere a costringere i propri governanti ad abdicare. Nessuna casta ha mai fatto la rivoluzione contro se stessa. Nessuna costituzione è mai stata riformata da coloro che (magari in modo distorto) ne traevano i maggiori benefici. E nessun capo di stato rinuncia alla corona, se non costretto.
Come avrebbe detto il re d’Italia, in Casa Savoia si regna uno per volta. Era ancora il tempo di Giorgio Napolitano, dunque, ma per quanto?
Lascia un commento