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I Presidenti della Repubblica: Giuseppe Saragat

Non fu facile scegliere il successore di Antonio Segni. Dopo due anni di paventata, e in certa misura anche reale svolta reazionaria, la bilancia tornava a pendere verso la sinistra, e la ripresa di quel progetto politico di centro-sinistra che sembrava al passo con i tempi (erano gli anni della distensione tra le due Superpotenze) e nello stesso tempo l’unico modo di evitare una radicalizzazione della lotta politica che avrebbe portato ad estreme conseguenze, come la vicina Grecia di lì a poco avrebbe dimostrato. C’era soprattutto un uomo in grado di rappresentare tutto questo. Un uomo a cui la socialdemocrazia in Italia doveva molto, se non tutto. Un uomo verso cui la stessa democrazia in quanto tale in Italia nell’estate del 1964 era debitrice.

Giuseppe Saragat era uno di quei giovani borghesi che avevano aderito al socialismo essendo rimasti impressionati dalle condizioni di vita della povera gente, proprio nel momento tuttavia in cui esso stava per cadere vittima delle manganellate delle Camicie Nere di Mussolini. Saragat, piemontese di famiglia sarda, aveva aderito al socialismo riformista di Turati, e non rinnegò mai quella scelta nei tempi successivi. Per quanto amico di Nenni e Pertini, con il quale divise anche la cella della morte a Regina Coeli, non si fece scrupolo a manifestare il suo dissenso verso l’alleanza dei socialisti con i comunisti, il cosiddetto Fronte Popolare costituito in vista delle elezioni politiche del 1948.

Con quella che è passata alla storia come la scissione di Palazzo Barberini, uscì dal PSI e dette vita al Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, in seguito Partito Socialista Democratico Italiano, che si alleò con la DC e si allineò alla sua politica di fedeltà al Piano Marshall ed al Patto Atlantico con gli USA, posizione che il PSDI avrebbe mantenuto fino alla fine dei suoi giorni, cinquant’anni dopo. Tutto ciò causò una temporanea rottura dei rapporti con Nenni e gli altri amici socialisti, che lo gratificarono di appellativi quale social-fascista, rinnegato e traditore, ma gli valse a gioco più lungo dei crediti da riscuotere allorché la tensione della Guerra Fredda si allentò, arrivò la stagione del centro-sinistra ed il PSI, passata la sbornia frontista, approdò nel campo dei partiti di governo.

Nel 1964 insomma Saragat era un padre benemerito della Repubblica e, lo si intuiva più che saperlo, il recente salvatore della democrazia in Italia. Fu eletto al ventunesimo scrutinio, decisivi furono i voti di socialisti e comunisti ben felici di approfittare delle spaccature interne alla DC, dove i cavalli di razza Fanfani, Moro ed Andreotti si facevano una guerra senza esclusione di colpi. La sua presidenza, che coincise con l’esplosione del ’68, dell’autunno caldo e con l’inizio della strategia della tensione a Piazza Fontana, fu tutto sommato abbastanza incolore. L’unica nota di colore venne semmai dalle storielle che si raccontavano a proposito della sua propensione per il buon vino della sua terra, il Barolo. Fu una presidenza neutra, ricondotta nell’alveo disegnato dai padri costituenti, che voleva un capo dello stato in funzione esclusivamente di rappresentanza all’estero e notarile all’interno, dopo i tentativi di Gronchi e soprattutto di Segni di assumere un peso politico imprevisto e indebito.

L’uomo che riconsegnò le chiavi del Quirinale nel 1971 era comunque un uomo invecchiato, superato dai tempi nuovi come del resto buona parte della sua generazione e della intera classe politica. Non ci fu tempo di ringraziarlo per i suoi trascorsi, né per lo stile con cui aveva retto la massima carica dello Stato. Il peggio doveva ancora venire. E stava rapidamente arrivando.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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