«Si dovrebbe pensare più a far bene, che a star bene: e così si finirebbe anche a star meglio»
(Alessandro Manzoni, I promessi sposi, cap. XXXVIII)
In principio era stato Alessandro Manzoni. Il romanzo storico era nato in Francia, e chi meglio di un giovane scrittore milanese imbevuto di romanticismo e di suggestioni rivoluzionarie e vaghe idee di protestantesimo poteva portarlo in Italia? Un’Italia che proprio l’epopea rivoluzionaria e napoleonica aveva cambiato radicalmente ed irreversibilmente, avviando quel risveglio da secolar torpore e servaggio che sarebbe sfociato nel Risorgimento nazionale?
Al giovane Alessandro, che faceva rientro in una Milano più illuminista di quanto fosse ormai la Parigi in cui il Congresso di Vienna e Waterloo avevano restaurato la monarchia assoluta dei Borbone, parve il soggetto migliore questa storia ambientata nella sua città durante il periodo più oscuro, quello di una dominazione spagnola ormai in decadenza e di un cattolicesimo all’apice delle sue pulsioni oscurantiste. La Milano del 1628, l’anno in cui esplose una delle più grandi pestilenze della storia d’Europa, e la Spagna si trovò a dover governare la fine del suo secolo d’oro e dell’impero su cui non tramontava mai il sole.
La Milano dove i protagonisti non erano moschettieri o eroi mascherati come negli archetipi d’Oltralpe, partoriti dalla fantasia sconfinata di Alexandre Dumas padre, ma somigliavano piuttosto a quelli che sarebbero stati gli eroi popolari di Victor Hugo, la gente qualunque come quel Fermo e quella Lucia che cominciarono a prender vita sulle pagine vergate da Alessandro Manzoni a partire dal 1820.
Dopo la breve ma inevitabile pausa imposta dalla commozione destata dalla notizia della morte di Napoleone e dal bisogno di dar forma definitiva ai sentimenti che avevano segnato la gioventù di tutta una generazione nell’ode che gli scolari italiani avrebbero mandato a memoria sotto il titolo Il Cinque Maggio, il giovane Manzoni si impegnò in una avventura quasi ventennale al termine della quale Fermo era diventato Renzo, Lucia era rimasta Lucia ma era cresciuta assai nelle dimensioni del personaggio, e la storia del loro travagliato amore al tempo della peste milanese era diventato il primo e a tutt’oggi più importante romanzo della storia della letteratura italiana.
A parlare dei Promessi Sposi in epoca moderna si rischia, quando va bene, l’alzata di spalle e gli occhi al cielo. La scuola italiana non ha mai saputo bene che farsene di questo capolavoro che sta dall’Unità d’Italia al centro di tutti i programmi scolastici e che soltanto pochi insegnanti riescono da allora a far amare ai propri allievi.
La scuola italiana non ha mai dato gli strumenti adatti agli scolari per apprezzare l’opera monumentale di Alessandro Manzoni, compendio di storia e di letteratura italiana, ma anche interfaccia di temi religiosi, filosofici, in una parola etici, che nessun programma scolastico riesce a valorizzare dando loro una qualche utilità rispetto all’adolescenza di coloro che arrivano in fondo regolarmente alla scuola dell’obbligo odiando cordialmente ciò che invece dovrebbero amare o quantomeno rispettare.
La storia ufficiale, quella che ognuno si fa un dovere di dimenticare non appena presa la Maturità, parla di un Alessandro Manzoni che andò a risciacquare in Arno i panni con cui rivestì la sua creatura letteraria, in ossequio al pregiudizio esistente allora come dopo che il dialetto fiorentino fosse in realtà l’italiano vero, più corretto.
Anche questa è storia. Firenze e la Toscana vivevano di rendita dai tempi del Dolce Stil Novo, allorché si erano disputate con la Sicilia di Federico II il diritto di primogenitura della lingua e della cultura italiana. Del Volgare, nel senso nobile del termine che tutti conosciamo o dovremmo conoscere. La Sicilia in seguito dovette accontentarsi di diventare la seconda delle Due Sicilie di un regno che aveva capitale a Napoli. Era rimasta la Toscana, che grazie ai Medici aveva capitalizzato un primato culturale su cui, come detto, a torto o a ragione ha saputo viver di rendita fino ai giorni nostri.
Sia come sia, i milanesi dei Promessi Sposi parlano quasi con un buffo accento fiorentino, ma a parte questo parlano e agiscono da italiani del Seicento, dei secoli bui, ancora lontani da un riscatto di cui pochi all’epoca avevano una pur nebulosa idea. I Promessi Sposi sono il nostro testo fondante, così come il Don Quixote di Cervantes lo è per la Spagna che allora ci dominava e l’Amleto di Shakespeare per un’Inghilterra che si avviava a prendere il posto di entrambe, culturalmente prima ancora che politicamente.
Davanti a questo monumento, la RAI radio televisione italiana scelse di non arrendersi intimorita ma piuttosto di cimentarsi come faceva ai suoi albori con tutti i capolavori letterari più importanti. Nel 1967 fu dato mandato al regista Sandro Bolchi ed allo scrittore sceneggiatore Riccardo Bacchelli (che a sua volta poteva vantare al suo attivo un altro capolavoro letterario quale Il Mulino del Po, di cui parleremo in seguito) di operare la riduzione televisiva – come si diceva allora – della madre di tutti i romanzi italiani.
Fu scelto un cast di tutte stelle del teatro e della neonata televisione, una specie di All Star Game della fiction dell’epoca. Eccezion fatta per i due protagonisti, in ragione dei personaggi che dovevano interpretare furono scelti due absolute beginners. Paola Pitagora da quel momento diventò per tutti Lucia Mondella, incarnandola come ognuno di noi se l’era immaginata (obtorto collo sui banchi di scuola, oppure nella piacevole rilettura che alcuni di noi azzardavano una volta portati a termine gli obblighi scolastici). A interpretare il suo promesso sposo Renzo Tramaglino fu chiamato Nino Castelnuovo, che da allora avremmo alternato nel nostro immaginario nei panni del ragazzo di quel ramo del lago di Como ed in quelli di colui che salta la staccionata come un atleta olimpico (olio Cuore, mangiar bene per sentirsi in forma, e quanti ricoveri al pronto soccorso a seguito di maldestri tentativi di imitazione!).
Nino se n’é andato pochi giorni fa. Paola è ancora con noi, al termine di una prestigiosa carriera durante la quale ha interpretato di tutto, è stata tutto. Così come Nino. Hanno visto cimentarsi con lo stesso testo che dette loro fama imperitura altri ottimi professionisti, da quelli arruolati da Salvatore Nocita nel 1989 a quelli scritturati da Francesca Archibugi e Guido & Maurizio De Angelis (gli ex Oliver Onions) per la trasposizione nel 2004 della prima versione manzoniana del 1823, quando ancora si chiamava Fermo e Lucia. Hanno visto anche le gustose parodie del Quartetto Cetra del 1985 e del Trio Lopez Marchesini Solenghi nel 1990.
Hanno tuttavia potuto invecchiare assieme a noi consapevoli che Renzo e Lucia erano loro, e lo rimarranno. Sarebbe stato d’accordo anche quel giovane scrittore milanese che quasi due secoli fa ci impiegò vent’anni a dare carattere ed aspetto nella fantasia dei lettori ai suoi due giovani protagonisti.
Paola e Nino ci avevano messo poche battute, il quel 1967 che ormai sembra tanto, tanto tempo fa.
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