Il film azzurro resterà fermo alla faccia sconcertata di Prandelli e alle cuffiette isolazioniste di Balotelli alla ripartenza dal Brasile. Al prossimo Mondiale l’Italia non ci sarà. Ci va la Svezia, che più volte – ma mai come adesso – è stata la pietra di paragone delle nostre lacune. La Svezia alla quale non siamo capaci di segnare un gol in due partite. La Svezia a cui San Siro fischia l’inno, così come qualche anno fa fischiò la Marsigliese ai francesi. Non salviamo più nemmeno l’immagine degli italiani brava gente, siamo odiosi oltre che scarsi. E vivaddio, restiamo meritatamente a casa il prossimo giugno.
Dice: Antonio Conte ci aveva visto lungo a mollare la Nazionale per le sterline di Abramovich. Con questo materiale umano era già andato fin troppo lontano, quarti di finale agli Europei, ad un passo dall’eliminazione dei tedeschi, se solo Pellé e Zaza fossero stati due giocatori appena decenti, in grado di calciare almeno un rigore.
Dice – lo fa impietosamente il popolo del web già prima dell’ultima partita -: ma dove vuoi andare con un commissario tecnico che sembra Edgar, il maggiordomo cattivo degli Aristogatti ( e che finisce per fare la stessa fine, aggiungiamo noi)?
Già, e con un presidente della FIGC che sembra piuttosto il gestore (alla buona, parecchio buona) di una mescita, aggiungiamo sempre noi? Coadiuvato da un presidente di club, lo Spalmatore di Debiti, che sembra…. Lasciamo stare?
Dice: sei arrabbiato a dire così. Non sei sereno. Vero, verissimo. Il calcio italiano sarà anche diventato lo schifo inguardabile che è diventato, ma la Nazionale era – ed è – una cosa sacra. Meritava di sputare l’ultimo sangue, gettare l’ultimo brandello di cuore oltre l’ostacolo, provarci, alla morte, per rimanere la nazione che era rimasta fuori dalle fasi finali una sola volta, e perché il CT di allora, Alfredo Foni, era un pistola, pace all’anima sua, con tutti i campioni che aveva in squadra tra italiani ed oriundi.
Vero, non gliela perdono a Edgar, all’oste ed al suo amico inquietante, e nemmeno a gran parte dei ragazzotti andati in campo in queste eliminatorie. Con un po’ meno menefreghismo e prosopopea, con un po’ più di umiltà, forse ce la facevamo anche stavolta. Uscivamo al primo turno anche in Russia, poco ma sicuro, ma l’onore italico era salvo. E rimanevamo secondi dietro il Brasile nella classifica dei sempre presenti.
Vero, sono fuori della grazia di Dio. Aggrappato alla faccia mesta di Buffon, alla sua ultima in azzurro, che non avrebbe mai pensato di chiudere così. A quella stravolta dalla rabbia di De Rossi, che sibila a denti stretti al suo sprovveduto CT nel pallone: «metti Insigne, questa partita la dobbiamo vincere!». Si vede che se lo vorrebbe mangiare, neanche lui pensava di chiudere così.
Aggrappato ai ricordi, a cinquanta dei sessant’anni trascorsi tra Belfast e San Siro. Per buona parte dei quali l’azzurro è stato un colore di cui essere orgogliosi, come italiani e come appassionati di calcio. Ancora nel 2016 si poteva esserlo, con quella Tour Eiffel che Conte & C. costrinsero i francesi a illuminare di bianco, rosso e verde. Due anni dopo, non sappiamo dove andare a nasconderci, a sotterrarci.
Grazie Edgar, grazie vinaio, grazie spalmadebiti, grazie a tutti, o quasi. Non si dimetterà nessuno, per l’amor di Dio. E magari andranno anche a vedersi le partite a spese nostre, a giugno, in Russia. E della crisi del nostro calcio dovrà – se vorrà e potrà – occuparsi la politica. Che magari realizzerà che sarebbe l’ora di fare quello che già facemmo ai tempi di Foni e poi di Fabbri: chiudere, per quanto ormai possibile, le frontiere.
Dice, ma c’è Maastricht, Schengen e compagnia bella. Benissimo, ma almeno con gli extracomunitari si può fare, e non solo nel calcio. Dal momento che non stanno arrivando in Italia grandi fuoriclasse come un tempo (né a livello sportivo né civile, con buona pace di buonisti, solidaristi pelosi e politicamente corretti), non sarà una gran perdita. E i nostri ragazzi, oltre a poter riprendere a passeggiare per le nostre città più tranquilli di giorno e di notte, potranno riprendere anche a giocare a calcio con qualche prospettiva di arrivare in serie A, e perfino in Nazionale. Con buona pace di procuratori e direttori sportivi, nonché di veri o presunti manager della Federazione.
Con il sistema di adesso, Giancarlo Antognoni probabilmente avrebbe durato fatica ad emergere nell’Astimacobi, figurarsi arrivare in azzurro. E’ ora di cambiare. Ma per farlo dovremmo prima cambiare noi, quel popolo che si lamenta sempre di chi lo rappresenta e mai di se stesso. Più facile che la Svezia, che ci saluta e ci fa marameo, direzione Mosca, vinca i prossimi mondiali. Che noi invece guarderemo comodamente seduti sul divano, azzurri compresi.
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