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Il Capo dei Capi

(Nella foto: Salvatore Riina detto Totò u curtu)

Nell’iconografia ufficiale di Cosa Nostra, Totò u’ curtu e Binnu u’ tratturi erano complementari come le loro controparti avversarie statali, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Il primo crudelmente estroverso, l’anima sanguinaria a caldo della mafia corleonese, il secondo calcolatore e introverso, egualmente sanguinario ma sempre a freddo, l’anima tutto sommato più pericolosa della cosca, perché capace di nascondere le sue attività nelle maglie di quelle dello Stato e della società civile, laddove il suo amico fraterno e sodale nel crimine le aveva rese clamorosamente e sfrontatamente visibili.

I corleonesi. Salvatore Riina e Bernardo Provenzano erano venuti alla ribalta come luogotenenti di Luciano Liggio, il boss che per primo aveva cominciato a scalzare il potere ed a cambiare drasticamente il codice di regole della vecchia Mafia, facendone fuori in successione i capi storici, da Michele Navarra a Gaetano Badalamenti, a Tommaso Buscetta a Stefano Bontate, tutti eliminati o comunque messi fuori gioco con smisurata violenza ed efferata crudeltà nelle cosiddette guerre di mafia.

Totò e Binnu erano diventati i numeri uno a partire da quel 1974 in cui Luciano Liggio fu catturato e affidato alle patrie galere. In un primo tempo come luogotenenti del boss che anche dalla prigione riusciva a commissionare loro omicidi e vendette e a mettere a punto strategie. Poi in prima persona, calcando ulteriormente il piede sull’acceleratore ed il dito sul grilletto.

Toccò dapprima all’estroverso. Totò u’ curtu divenne il Capo dei Capi quando fece crivellare di colpi Stefano Bontate e costrinse all’esilio Tommaso Buscetta. La vecchia mafia palermitana era sconfitta, la nuova corleonese si trovò faccia a faccia con lo Stato, e intese fargli guerra a viso aperto, com’era nel temperamento di Riina.

Dall’omicidio Dalla Chiesa a quelli di Falcone e Borsellino, fu un escalation accompagnata da un immane bagno di sangue che raggiunse il culmine nel momento in cui, con il crollo della Prima Repubblica, i corleonesi credettero di poter vincere la partita costringendo il debole Stato alla resa. Il 23 maggio 1992, mentre Giovanni Brusca premeva il pulsante dell’innesco del primo dei due attentatuni, Totò Riina sembrò avere effettivamente vinto.

La strage di Capaci

Ma uno Stato, anche uno Stato disastrato e corrotto come quello italiano, non può arrendersi. E una cosca di mafiosi come quella dei corleonesi può prosperare, ma non può mai vincere. Non come immaginava Riina. Comunque sia andata, quanta parte di trattativa e quanta di scontro effettivo abbia avuto luogo tra gli uomini dello Stato e quelli della Mafia che sentivano il bisogno di prendere le distanze dallo stragismo sanguinario del Capo dei Capi, gli uomini del ROS del Colonnello Mori e del Capitano Ultimo gli strinsero il cappio attorno ed il 15 gennaio 1993 lo mandarono a raggiungere il suo vecchio boss sotto il regime di 41bis. Per poco tempo, perché Liggio se lo portò via un infarto a Bad’e Carros.

Uscito di scena il Capo dei Capi, da quel momento cominciò il regno dell’ultimo Padrino. Bernardo Provenzano deteneva il record di latitanza, quando fu arrestato finalmente l’11 aprile 2006. 43 anni. L’ultima volta era stato avvistato a Corleone nel 1963, in occasione di un arresto come sospettato di omicidio ed associazione a delinquere. Fuggito, era riuscito a far perdere le sue tracce pur non muovendosi mai dalla nativa Corleone. Soltanto una volta, pochi anni prima dell’arresto si era recato in Francia sotto falso nome per una operazione alla prostata. Poi, aveva governato sempre l’impero mafioso dai suoi nascondigli corleonesi e con i celebri pizzini, foglietti di carta di cui non rimaneva traccia, dopo che le sue disposizioni erano state eseguite.

Fedele alla sua anima all’opposto di quella di Riina, calcolatore dove l’altro era stato irruento, Provenzano riportò la Mafia dove in fondo era sempre stata prima dei corleonesi. Al di fuori dei riflettori e  delle cronache. Basta sangue, basta attentati, basta pentiti, basta scontro frontale con uno Stato che almeno a livelli di decenza si stava riorganizzando. Cosa Nostra, secondo lo schema mirabilmente descritto dal Padrino di Mario Puzo e Francis Ford Coppola, era interessata a riciclarsi e ripulirsi passando ad attività alla luce del sole. A giocare in borsa, a fare affari, a muovere grandi capitali e non più commandos e gruppi di fuoco.

Sotto la guida del viddranu, del vecchio contadino Provenzano, ce la fece. Fino al punto di non aver più bisogno di lui. Dicono che i nuovi boss, come quel Matteo Messina Denaro che figura attualmente in testa alla lista dei ricercati, assomiglino più a broker e operatori di borsa che ai due ex contadini che misero a ferro e fuoco prima il corleonese e poi l’Italia a partire dall’immediato dopoguerra. Per questa gente, per questa Cupola in versione moderna, Provenzano forse era diventato ingombrante quanto e più di Riina.

U’ tratturi, chiamato così perché eliminava implacabilmente i nemici con freddezza ma con efficienza non inferiore a quella dello stragista Riina, fu preso il giorno delle elezioni politiche, l’11 aprile 2006. La data sembrò troppo una coincidenza per essere una vera coincidenza. L’Ulivo di Romano Prodi forse beneficiò di quella buona notizia nel riportare una vittoria elettorale quasi di misura. Ciò che è certo è che l’uomo che aveva tenuto in scacco lo Stato italiano per 43 anni si lasciò catturare senza opporre resistenza, seguendo docilmente gli agenti.

Abbiamo tutti in mente il suo sguardo sornione ed il suo sorriso beffardo, a mezza bocca, mentre esce dal covo dove è stato catturato. Come di chi lascia che i nemici si godano il successo e le luci della ribalta, perché tanto sa in sostanza di aver vinto lui, sempre e comunque. Di aver lasciato la Mafia probabilmente più forte di quando l’ha presa. Di aver fatto tutto quello che voleva e doveva fare, lui, l’ultimo Padrino.

Forse ha ragione chi dice – con sintesi indubbiamente poco lusinghiera per la nozione di Giustizia e di Stato che tutti dovremmo conservare nella nostra coscienza – che in Sicilia un Capo dei Capi viene catturato solo quando Cosa Nostra non ha più bisogno di lui. E ce n’è un altro pronto a prendere il suo posto. Forse, trattandosi di Mafia, siamo destinati come diceva Falcone a vederla un giorno sconfitta o dissolta come tutte le organizzazioni umane, ma mai a conoscere veramente le verità che la riguardano.

Bernardo Provenzano, l’ultimo Padrino, e Totò Riina, il Capo dei Capi, se ne sono andati da un paio d’anni. Hanno incarnato la Mafia come ce l’hanno sempre descritta la letteratura, il cinema e la cronaca giudiziaria, e come di conseguenza ce la aspettiamo.

Gli ultimi tempi la malattia li aveva ridotti a poveri vecchi in fin di vita come tanti. Come tanti, che non hanno la loro storia alle spalle, per loro famiglie e avvocati avevano chiesto l’attenuazione del 41bis. I familiari di entrambi hanno lamentato dopo la loro scomparsa di non aver nemmeno potuto tributare loro un ultimo saluto, un’ultima carezza.

Alle loro vittime e alle famiglie di queste, né loro né nessun altro dei loro vecchi compagni corleonesi hanno mai concesso simili riguardi. Argomento che divide, e continuerà a farlo. E’ oggettivamente difficile combattere la Mafia essendo lo Stato. Usando legalità e umanità contro le lupare.

Il Capo dei Capi el’ultimo Padrino, compagni fraterni di un’infanzia siciliana che ai giorni nostri è difficile persino immaginare, figuriamoci comprendere. Quello che è certo è che si sono finalmente presentati al processo più maxi che ci possa essere. Lassù dove sono adesso, il 41bis, se applicato, dura per l’eternità.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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