«L’Italia è il Paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti. Qui ho imparato, da mio padre e dalla vita, il mio mestiere d’imprenditore. Qui ho anche appreso la passione per la libertà. Ho scelto di scendere in campo, e di occuparmi della cosa pubblica, perché non voglio vivere in un Paese illiberale governato da forze immature, e da uomini legati a doppio filo a un passato politicamente ed economicamente fallimentare».
Fino al novembre 1993, Silvio Berlusconi era stato conosciuto dal grande pubblico come un imprenditore di successo, prima nel settore edilizio dove si era imposto all’attenzione con le realizzazioni dei quartieri abitativi sperimentali di Milano 2 e Milano 3, poi nel settore televisivo. Dove era riuscito in ciò che fino a poco tempo prima era sembrato impossibile: spezzare il monopolio della TV pubblica, della RAI.
Canale 5 ed il Gruppo Fininvest/Mediaset erano nati e prosperati anche grazie all’appoggio di un alleato potente, nella Prima Repubblica: quel Bettino Craxi che appoggiando l’amico-alleato di cui era stato anche testimone delle nozze con Veronica Lario (anche in momenti estremamente difficili, come l’oscurazione delle sue reti televisive nel 1984 da parte di alcuni pretori per violazione della legge che proibiva alle reti private di trasmettere su scala nazionale, oscurazione a cui pose rimedio con proprio decreto l’allora presidente del consiglio socialista), aveva fatto un favore soprattutto a se stesso. Nella RAI del Manuale Cencelli, il P.S.I. era chiuso in un angolo rispetto a D.C. e P.C.I., e con l’avvento della TV commerciale Craxi si creò nuovi spazi, e Berlusconi ringraziò.
Il Cavaliere era un uomo di successo, amato da chi si divertiva a seguire la programmazione delle sue reti televisive, le sue scalate editoriali e imprenditoriali ed i successi intercontinentali del suo Milan; odiato da chi odiava i suoi amici socialisti, la sua crescente influenza politica di riflesso, il suo crescente potere economico e mediatico a scapito via via di nomi importanti come Rizzoli, Mondadori, Rusconi.
Ma nessuno immaginava quello che sarebbe successo a partire da quel novembre 1993, mentre agonizzava la Prima Repubblica dopo Tangentopoli e se ne profilava – complice anche la caduta del Muro di Berlino e della conventio ad excludendum della NATO nei confronti di un P.C.I. che aveva cambiato nome sperando che ciò bastasse a spalancargli il futuro – una Seconda egemonizzata da quella che il segretario della nuova Cosa rossa, Achille Occhetto, chiamava senza mezzi termini la sua gioiosa macchina da guerra.
A Roma per la poltrona di Sindaco correvano il verde Francesco Rutelli ed il missino Gianfranco Fini. Il suo appoggio al secondo fu percepito come un fatto epocale, tutt’altro che estemporaneo. Sdoganare coloro che fino a quel momento erano stati definiti sprezzantemente come i neofascisti dal resto dell’arco costituzionale, equivaleva chiaramente ad aprire scenari nuovi. I voti di Alleanza Nazionale (come si sarebbe chiamato da allora in poi il M.S.I.) non sarebbero bastati a conquistare il Campidoglio a Roma, ma potevano essere determinanti per Palazzo Chigi nella primavera successiva, se uno schieramento di centrodestra fino a quel momento inedito e impensabile avesse trovato il candidato giusto.
Candidato che latitava. Fino al gennaio 1994 a fronteggiare l’unico dei vecchi partiti rimasto in piedi, il P.D.S. di Achille Occhetto, sembrava non essere rimasto nessuno. Poi, una sera Mediaset aveva annunciato un discorso a reti unificate del suo proprietario-editore. Quella sera, il 26 gennaio 1994, gli italiani ascoltarono trasecolati, meravigliati, attraversati dalle più disparate emozioni la dichiarazione sensazionale con cui Silvio Berlusconi annunciava la sua discesa in campo. 9 minuti e 25 secondi in tutto, che avrebbero cambiato radicalmente la storia del paese.
Alle elezioni del marzo successivo lo schieramento moderato, liberale, di centrodestra, composto da quella che sembrava al momento un’Armata Brancaleone (gli ex fascisti di A.N., gli antiitaliani lumbard della Lega di Umberto Bossi, il partito-azienda messo su in fretta e furia dal magnate della TV e del calcio senza alcuna esperienza politica diretta, più qualche residuato bellico democristiano), annunciava il getto del proprio guanto di sfida in faccia a quelle Brigate Garibaldi rivedute e corrette con cui dopo più di 40 anni gli ex comunisti erano sicuri di conquistare finalmente il potere in Italia.
Il 27 marzo 1994, quando uscirono le prime proiezioni sulle reti pubbliche RAI e su quelle private del cavalier Berlusconi, nessuno poteva crederci, se non chi ci aveva sperato appoggiando un’impresa all’apparenza più disperata di quella della D.C. nel 1948. Con oltre il 42% il cosiddetto Polo delle Libertà (F.I., A.N., Lega) si aggiudicava Camera e Senato, costringendo all’opposizione l’Alleanza dei Progressisti (P.D.S., P.S.I. residuo, Verdi, Rete di Leoluca Orlando, Rifondazione Comunista di Fausto Bertinotti, Cristiano Sociali – altri residuati D.C. – di Pierre Carniti) fermatasi al 34% scarso. Determinanti, con il senno di poi, per differenza i voti andati al cosiddetto Patto Segni, guidato dagli esponenti democristiani Mario Segni e Rocco Buttiglione e in cui erano confluiti gli ex repubblicani di Giorgio La Malfa e gli ex liberali di Valerio Zanone.
La Prima Repubblica si riposizionava nella Seconda, incarnata da questo milanese dall’aria un po’ impacciata che nei giorni successivi salì al Quirinale a ricevere l’incarico a formare il governo da un presidente della repubblica per nulla compiaciuto, anzi assai contrariato: Oscar Luigi Scalfaro.
Di quel discorso all’apparenza estemporaneo pronunciato alla televisione dal neo-premier ed ascoltato da un paese attonito appena due mesi prima, su cui al momento avevano ironizzato in molti prendendolo poco o niente sul serio, a quel punto non aveva più voglia di scherzare nessuno.
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