«Io il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me». Con queste parole il parlamentare socialista Giacomo Matteotti si rivolse ai compagni di partito che lo affiancavano sui banchi della Camera dei Deputati al termine di quello che sarebbe risultato il suo ultimo discorso in aula il 30 maggio 1924.
Matteotti si era alzato a denunciare, come aveva fatto spesso, illegalità e soprusi del governo fascista di Benito Mussolini e dello squadrismo che l’aveva sostenuto e lo sosteneva. Il 6 aprile di quell’anno, dopo due anni di governo, Mussolini aveva trionfato alle elezioni politiche complice una legge elettorale ritagliata su misura e soprattutto una serie di brogli che persone come Matteotti non avevano avuto difficoltà ad accertare.
I Fasci di Combattimento erano sorti nel marzo 1919 per contrastare quella che veniva percepita da molti settori dell’opinione pubblica liberal borghese come una svolta in senso bolscevico della società e della politica italiana. Era quello che passò alla storia come il biennio rosso, seguito poi da un biennio nero che portò l’ex socialista Mussolini a farsi campione della restaurazione, della normalizzazione dello stato liberale uscito dal Risorgimento, anche se ormai di liberale rimaneva ben poco, sotto le manganellate dei fascisti.
Nel 1922 la Marcia su Roma aveva ottenuto l’incarico di Vittorio Emanuele III a Mussolini di formare un governo che aveva bisogno di essere sostenuto – oltre che dalle squadracce fuori del Parlamento – anche da una maggioranza in cui varie formazioni liberali erano confluite, nell’illusione che si trattasse solo appunto di un periodo di necessaria normalizzazione. Ma Mussolini guardava più avanti, e i suoi gerarchi mordevano il freno mal sopportando le pastoie della residua legalità garantita dallo Statuto Albertino.
Nel 1924 erano state indette nuove elezioni, allo scopo di dotare quello che ancora non era un regime di una maggioranza più consistente. La Legge Acerbo aveva istituito un forte premio di maggioranza a chi vinceva con il sistema proporzionale, e fin qui era un sistema che per quanto discutibile rimaneva nel solco di quelli sperimentati in Europa al tempo degli stati liberali per favorire la governabilità. Ad assicurare la necessaria vittoria però ci pensarono le intimidazioni ed i brogli. La lista nazionale, o Listone, costituita da fascisti e liberali di destra, fece man bassa di consensi, con le buone o con le cattive, arrivando ad ottenere 355 seggi su un totale di 535.
Contro questo risultato e tutto ciò che l’aveva provocato il giovane deputato Giacomo Matteotti (non aveva ancora quarant’anni) si alzò a parlare quel 30 maggio, consapevole che quello era probabilmente l’ultimo suo discorso in Parlamento. Matteotti era insieme a Filippo Turati uno di quei socialisti espulsi dal partito all’epoca della svolta massimalista, il tentativo cioè di rincorrere il neonato Partito Comunista d’Italia sulla via dell’estremismo. Insieme a Turati aveva fondato il Partito Socialista Unitario, con l’auspicio di promuovere comunque una riunificazione delle forze progressiste in vista di un’opposizione comune al nascente squadrismo fascista.
Il giovane deputato del Polesine si era distinto da subito per la sua azione antifascista e per la difesa delle classi più povere. Nella sua terra d’origine s’era sempre battuto contro la miseria di contadini e operai, e aveva detto senza mezzi termini fin dalla fondazione dei Fasci che questi altro non erano che il tentativo della classe padronale di fermare l’avanzata dei diritti dei lavoratori, e che non avrebbero normalizzato proprio nulla, finendo anzi per spazzare via i diritti di tutti.
Ma soprattutto – e pare che fosse questo a condannarlo più di ogni altra cosa –Matteotti stava raccogliendo le prove della corruzione dello stesso re d’Italia Vittorio Emanuele III e di colui che si apprestava a diventare il Duce, Sua Eccellenza il Presidente del Consiglio Cavalier Benito Mussolini. Recenti studi hanno accertato che il Savoia ed il suo capo del governo avevano accettato tangenti dalle compagnie petrolifere anglo-americane che già allora avevano grande influenza sulla politica mondiale, affinché rinunciassero a sfruttare il petrolio della Libia, dal 1913 divenuta a tutti gli effetti colonia italiana. Corruzione, e tradimento degli interessi nazionali.
Questa parte del lavoro di Matteotti non era ancora emersa nei suoi discorsi parlamentari, ma la polizia politica fascista ne era al corrente. Il discorso del 30 maggio offrì il pretesto, il Parlamento in camicia nera insorse contro quel deputato rosso che denunciava i brogli del governo e la violenza della «milizia armata, composta di cittadini di un solo Partito, la quale ha il compito dichiarato di sostenere un determinato Governo con la forza, anche se ad esso il consenso mancasse». Mussolini uscì furioso da Montecitorio, pronunciando la frase fatale: «Che fa Dumini? Che fa la Ceka???»
La Ceka era una sorta di polizia segreta che il fascismo aveva istituito ad imitazione del governo bolscevico sorto dalla Rivoluzione d’Ottobre in Russia. Il nome in italiano non aveva senso, trattandosi di un anagramma russo (significava commissione straordinaria), ma evocava sinistramente la presenza oscura e intimidatrice di un organismo minaccioso, e fu adottato per quello. Amerigo Dumini era un delinquente comune che aveva visto nel Fascismo una possibilità di legalizzazione e di nobilitazione alle sue imprese, ed aveva messo al suo servizio le proprie capacità professionali di killer, compiendo spesso e volentieri i lavori più sporchi consistenti nell’eliminazione di personaggi scomodi per il nascente regime.
La squadra messa assieme da Dumini attese Matteotti nel pomeriggio del 10 giugno 1924 sul Lungotevere Arnaldo Da Brescia, mentre il deputato si recava a Montecitorio. Lo sequestrò, lo caricò sulla Lancia Kappa che fu vista partire a tutta velocità e sparire verso la periferia da due testimoni. Forse le intenzioni della squadraccia erano solo quelle di dare una lezione a Matteotti, che tuttavia si difese cercando di saltare giù dall’auto. Gli riuscì solo di lanciare fuori il tesserino di parlamentare, poi ritrovato da passanti, prima di essere accoltellato.
La situazione era sfuggita di mano agli squadristi di Dumini, che non trovarono di meglio che nascondere il cadavere del deputato socialista nel bosco della Quartarella, a 25 km da Roma. L’assenza di Matteotti fu prontamente notata dai parlamentari delle minoranze, le indagini della magistratura non ancora asservita portarono al ritrovamento del cadavere ed all’arresto di Dumini e dei suoi. Il Fascismo nel frattempo visse i suoi peggiori momenti di crisi, con Mussolini che tentò di scaricare le responsabilità su Cesare Rossi, vecchio camerata della prim’ora e capo della famigerata Ceka, nonché su altri del suo entourage.
Le opposizioni abbandonarono Montecitorio, fu la cosiddetta secessione dell’Aventino, che intendeva richiamare nel nome quella storica dell’Antica Roma con cui la plebe aveva ottenuto il riconoscimento dei propri diritti e l’istituzione dei Tribuni. Stavolta le cose andarono diversamente. Quando parve che Mussolini vacillasse sotto i colpi inferti dai magistrati, dagli oppositori e dalla stessa opinione pubblica disgustata dall’omicidio, i gerarchi capeggiati dal Ras di Cremona Roberto Farinacci lo misero in un angolo, costringendolo a passare il Rubicone nel loro comune interesse.
Il 3 gennaio 1925 Mussolini si presentò alla Camera a pronunciare lo storico discorso del «mi assumo la responsabilità intera di quanto è successo». Con quel discorso il capo del governo diventò il Duce, mettendo fine allo stato liberale e istituendo ufficialmente la dittatura. Sarebbero seguite le leggi fascistissime che avrebbero trasformato profondamente lo Statuto Albertino e messo al bando politicamente e civilmente tutto ciò che non era fascista. Le indagini sulla morte di Matteotti nel frattempo venivano sotterrate, i magistrati che avevano cercato di accertare la verità furono imbavagliati. Le opposizioni politiche non furono capaci di sollevare il paese contro la neonata dittatura, e si ritrovarono anzi sbattute fuori dal Parlamento. Non vi sarebbero più ritornate fino al 1946.
Nel frattempo, il paese che aveva chinato la testa al Duce era destinato a seguire nel bene e nel male la sua parabola, e a pagare alla fine il conto della sua volontà di potenza. In un altro 10 giugno, sedici anni dopo, Mussolini avrebbe annunciato alle piazze urlanti ed a tanta gente attonita alla radio a casa che «la dichiarazione di guerra era stata consegnata nelle mani degli ambasciatori di Gran Bretagna e Francia».
Alla fine qualcuno si ricordò delle ultime, profetiche parole di Giacomo Matteotti: «Uccidete pure me, ma l’idea che è in me non l’ucciderete mai». Tornare alla sua idea, vent’anni dopo la sua morte, avrebbe significato per l’Italia pagare un prezzo terribile.
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