Automobilismo

Il destino di un guerriero

Schumi sulla sua Ferrari

Oggi compie gli anni. Chissà se ne è felice. Chissà se ne è cosciente. Chissà se questa è vita, per lui che ha visto in faccia la morte tante di quelle volte…

L’uomo della rinascita, voluto a Maranello personalmente dall’Avvocato Agnelli per riportare alla vittoria nel campionato del mondo di Formula 1 la scuderia del Cavallino dopo vent’anni di amarezze, si presentò ai cancelli della Ferrari una mattina dell’inverno 1995. Aveva appena vinto il secondo mondiale consecutivo con la Benetton, allora gestita da Flavio Briatore, un altro che come l’Avvocato di piloti se ne intendeva, e che all’Avvocato non aveva saputo, o voluto dire di no.

Il ragazzo nato e cresciuto a Kerpen, vicino alla frontiera tedesca con il Belgio, dove il padre gestiva un autodromo di kart e dove aveva imparato ad andare più veloce di tutti, aveva vinto nel 1994 di un’incollatura su Damon Hill della Williams, con il quale nell’ultima corsa a Suzuka aveva fatto a sportellate mantenendo il vantaggio grazie all’incidente che li mise fuori gara tutti e due (nella migliore tradizione dai tempi di Prost e Senna).

Shumacher con Gianni Agnelli

Era l’anno in cui l’automobilismo aveva perso il suo mito, Ayrton Senna, morto a Imola il 1° maggio, ed era disperatamente in cerca di un erede. Lo trovò in questo tedesco di poche parole, che alla prima occasione fece centro, e si ripeté l’anno dopo questa volta con ampio distacco.

Una volta alla Ferrari, Michael si trovò a dover risollevare sia dal punto di vista morale che tecnico una scuderia piegata da anni di batoste. Insieme a lui, altri due fuoriclasse nel loro genere, Jean Todt e Ross Brown, a poco a poco misero a punto una macchina in grado di assecondare un pilota veloce e (quasi sempre) freddo come non se ne vedevano dai tempi di Niki Lauda, anche lui a suo tempo uomo del destino della Rossa. La vittoria a Barcellona sul bagnato e poi a Monza, dove i ferraristi soccombevano da anni, portarono subito il campione tedesco nel cuore dei tifosi.

Mancava solo la vittoria mondiale, e dovette aspettare altri quattro anni. Nel 1997, il destino risarcì la famiglia Villeneuve dando a Jacques quello che non era stato concesso a Gilles, vincere e anche sopravvivere per raccontarlo, e in qualche modo i tifosi della Ferrari se ne fecero una ragione. Per quanto avevano voluto bene al padre accettarono la vittoria del figlio, forse ancora di più per una intemperanza di Schumi che all’ultima gara, nel sorpasso decisivo, dimostrò di non essere sempre così freddo come voleva la leggenda.

Schumacher felice al traguardo

Negli anni successivi, l’errore di Spa con il tamponamento sul bagnato di un Coulthard già doppiato e l’incidente di Silverstone dove la Ferrari ruppe i freni e Michael ci rimise per fortuna solo una gamba, dettero la vittoria alla McLaren di Hakkinen, che si presentava come un avversario temibile anche nell’anno 2000. Ma a quel punto la macchina rossa ed il campione tedesco erano diventati un tutt’uno. Michael non sbagliò nulla, la Ferrari nemmeno, il mondiale fu vinto a Monza, in casa, con due giornate di anticipo. Ce lo ricordiamo tutti il tedesco (quasi sempre) di ghiaccio con indosso la parrucca rossa a fare baldoria per festeggiare una vittoria attesa vent’anni da tutta l’Italia dei motori.

Per altri quattro anni, dal 2001 al 2004, fu solo questione poi di capire con quanto anticipo Schumacher avrebbe rivinto il mondiale. Il suo record, sette titoli di cui 5 consecutivi con la Rossa, sarà difficilmente battibile in un tempo ragionevole a venire. Fu interrotto da colui che sembrava destinato a diventare a sua volta il suo erede, Fernando Alonso, l’uomo che – grazie al solito Briatore, stavolta in Renault – lo spodestò nel 2005 e poi anche nel 2006, grazie anche a un motore Ferrari traditore nella penultima corsa, sempre nella fatale Suzuka.

Sazio di vittorie e forse consapevole di avere incontrato un altro se stesso, in quel ragazzo nato anche lui in montagna ma molto più a sud, nelle Asturie spagnole, che gli aveva tenuto testa vittoriosamente, Michael fece un figurone, andando a ringraziare comunque i suoi meccanici tutti dal primo all’ultimo e annunciando il suo ritiro alla fine di quella stagione.

Shumi sui campi da sci

Rimase come uomo immagine e consigliere della Ferrari negli anni successivi, il primo vittorioso di Kimi Raikkonen e gli altri in cui Felipe Massa cercò la vittoria prima e la guarigione poi da un brutto incidente. Nel 2009, interpellato sulla sua disponibilità a sostituire il brasiliano infortunato, non fu disponibile causa quel mal di schiena che è sempre stato il suo tallone di Achille e il motivo del suo lungo rapporto con il fisioterapista Balbir Singh. Nel frattempo, forse, si era già fatta sentire all’uscio di casa sua anche la Mercedes, decisa a ritornare nel mondo delle corse in proprio e non più in sodalizio con  una chiacchieratissima McLaren.

L’annuncio bomba del ritorno di Michael alle corse nel 2010 alla guida di una monoposto della casa di Stoccarda movimentò il mondo della Formula 1 forse più di quello del passaggio di Fernando Alonso alla Ferrari. I cui tifosi si divisero tra quelli che non potevano ignorare i battiti del loro cuore e quelli che si sentirono traditi. Il destino di Schumi sembrava decisamente quello di ignorare il noto proverbio secondo cui gli eroi muoiono giovani, anche se – nessuno lo sapeva ancora – presto quel destino avrebbe assunto connotati ancor più beffardi.

Sfidare la sorte che gli aveva dato così tanto per tentare un secondo miracolo, far rinascere la Mercedes dopo esserci riuscito con la Ferrari, tuttavia non si dimostrò pagante. In tre anni la Mercedes ebbe risultati deludenti, e vedere Schumi tamponare come un pivellino il francese Verne a Singapore, per colpa di freni che sostanzialmente non funzionavano, fu un momento molto triste. Forse Schumi capì in quella circostanza che la fortuna non paga due volte, e che era bene che la gente si ricordasse dell’altra sua vita, quella in cui lui era stato il numero uno assoluto.

Schumache con l’amico Jean Todt

Auf wiedersen, Michael. Du bist am moisten grossen. Sei stato il più grande, scrissero i giornali. Senza immaginare che presto sarebbero tornati a parlare di lui ancor più che del mondo che aveva appena lasciato, quello delle corse.

E’ possibile dare la colpa al destino crudele se si ritrova in gravi condizioni uno che ha vissuto gran parte della sua vita a 300 all’ora? Parve di sì, quel giorno di dicembre del 2013 – appena un anno dopo il suo secondo addio alle corse – in cui rimase vittima di un incidente mentre sciava con il figlio Mick. L’uomo che aveva rischiato la vita così tante volte si ritrovò in coma farmacologico a seguito di un fuori pista concluso con la testa sbattuta su un sasso che affiorava dalla neve. E da allora non si sa se si è più svegliato, o se si è svegliato ed è cosciente e quanto. La famiglia difende gelosamente la sua privacy limitando all’essenziale i bollettini medici, Dio solo sa in che condizioni è  veramente adesso.

Nell’unico altro incidente della sua vita, il fuoripista di Silverstone del 1999 che aveva rallentato di poco la sua epopea dei cinque mondiali vinti di fila con la Ferrari, se l’era cavata con una gamba rotta. Stavolta, malgrado il tedesco – spericolato ma metodico come sempre – indossasse il casco, l’impatto gli ha prodotto una commozione cerebrale subito degenerata in emorragia devastante.

Michael con la moglie Corinna

Dopo 24 ore, il bollettino medico dell’ospedale di Grenoble dove era giunto dalla pista di Meribel, teatro dell’incidente, parlava di condizioni che restavano stabili ma critiche, con prognosi strettamente riservata. «Non possiamo pronunciarci sulle possibilità di sopravvivenza e sul futuro di Schumacher», dichiarò l’equipe medica che lo seguiva, sotto la supervisione di quel professor Saillant dell’Università di Parigi, esperto di neurochirurgia, che già lo aveva rimesso a posto nel 1999 in un’altra circostanza decisamente molto meno grave.

A distanza di undici anni, quel bollettino medico è rimasto sostanzialmente e tragicamente invariato. Parlano ultimamente di una nuova cura a base di staminali, dicono che Michael in qualche modo stia reagendo. Chissà. Tutti hanno ancora in mente come termine di paragone l’agonia di Leonardo David, lo sfortunato sciatore italiano che rimase in coma sei anni dopo il terribile incidente in discesa libera a Lake Placid. Tutti sanno che questa volta Michael è impegnato in una corsa che non può vincere, neppure guidando da par suo.

Il pilota che era sembrato nei suoi giorni d’oro fin troppo riservato e a volte quasi scostante non ha mai avuto così tante manifestazioni di affetto come dopo l’incidente. Passa il tempo, le luci dei riflettori si allontanano, e il destino del più grande si consuma ormai in silenzio, nell’attesa. Nel ricordo di tutti, tifosi, avversari, addetti ai lavori e spettatori. E su quelle cinquanta candeline che oggi verranno spente (immaginiamo anch’esse in silenzio) nella sua residenza svizzera, noi tutti soffieremo sommessamente. Un soffio esile come quello, vitale, che ancora tiene con noi il corpo e l’anima di Michael Schumacher, l’ultimo guerriero.

«So che sta lottando…  Spero che possa succedere qualcosa…» (Luca Cordero di Montezemolo)

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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