Politica

Il discorso del presidente

E’ il terzo da quando presidente è Sergio Mattarella, eletto nel 2015 con i voti dei renziani preoccupati di assicurare una (per loro benevola) successione all’ormai scaduto Giorgio Napolitano.

Di Giorgio Napolitano, Mattarella ha mantenuto non solo l’indirizzo politico, ma anche l’ampio ricorso ad una retorica vuota, indisponente, spesso offensiva. Esattamente come l’azione del governo da lui incaricato, l’inaffrontabile Gentiloni.

E così, é difficile enucleare qualcosa di concreto nel suo discorso di ieri notte, se non a contrario. E tenendo conto che il prossimo, quello appena iniziato, è un anno elettorale. Per di più di quelli epocali, come forse soltanto nel 1948, nel 1976 e nel 1994 prima d’ora.

Nelle parole del presidente, che ritrova per l’occasione accenni di espressività facciale e perfino qualche sorriso, ecco l’accenno ai giovani. «Oggi vanno a votare, cento anni fa andavano nelle trincee». Sarà, o passa per essere, un grande giurista Sergio Mattarella, ma come storico lascia a desiderare, quasi quanto come agit prop del partito che l’ha eletto.

Cento anni fa, il mondo era in trincea perché non aveva saputo liberarsi per tempo di régimes che più anciens non si poteva. La generazione che a fronte di problemi sempre più gravi aveva prosperato indifferente in una belle époque opulenta e sciaguratamente edonista come i passeggeri del Titanic che avevano ballato al ritmo dell’orchestrina mentre la nave affondava, aveva alla fine mandato i propri figli a morire in trincee che erano state scavate da tempo, e che sarebbero a lungo rimaste a dilaniare il nostro suolo ed a preparare la strada a nuovi orrori, fintanto che il mondo non avesse ritrovato un equilibrio, per quanto precario. Come quello che nel secondo dopoguerra ci ha portato benessere ed una nuova lunghissima belle époque.

La storia si ripete a cicli. Ed il paragone con i nostri giorni dovrebbe essere fatto da un oratore più attento e meno di parte, che ponga l’accento sulle similitudini, non sulle diversità più apparenti che reali. Ce ne sono fin troppe, a cominciare da una classe dirigente altrettanto sciagurata e da una platea di cittadini altrettanto distratta, intenta a ballare al ritmo di motivetti insulsi, ripetitivi e inutili, mentre già l’iceberg che ci sbarra la strada  e che ci può affondare definitivamente è in vista.

Quando non sai in sostanza che dire, un richiamo a Papa Francesco ci sta sempre bene. Ecco dunque il passo successivo, l’ecumenismo cattolicheggiante del paese rimasto quello degli italiani brava gente, accogliente, solidale, operoso. Il vecchio cuore democristiano del presidente batte inevitabilmente per l’altra sponda del Tevere, figurarsi poi per un successore di Pietro politico come questo che ha preteso chiamarsi Francesco e che ha fatto dell’apparenza (lasciamo perdere la sostanza, non vogliamo rischiare un’accusa di blasfemia, in questa Italia ancora più baciapile di quanto ci piaccia spesso constatare) il suo verbo. L’icona dell’italiano che lavora a schiena bassa, in silenzio, e si stringe a tavola come un contadino di fine Ottocento per dividere il misero tozzo di pane con chi arriva, senza battere ciglio, piace tanto alla nostra classe politica. Colei che ha mandato questo attuale inquilino al Quirinale.

Non un accenno – per esempio – ai prossimi rincari, che metterà in ginocchio tanta di questa brava gente italiana, grazie alla politica dissennata (per non dire peggio) di un governo che ha sempre avuto l’appoggio del Quirinale. Un governo che ha sistematicamente litigato con chi possedeva il gas diretto a riscaldare le nostre case, che ha sistematicamente e volontariamente mancato (come tanti predecessori) una politica energetica credibile, prima ancora che una politica economica di minimo buon senso.

Ma tant’é. Mattarella è uomo di retorica antica, sotto la quale scorrono le intenzioni di chi lo ha mandato avanti, e che lui come sempre da peone democristiano qual è rimasto esegue senza battere ciglio. Tanti auguri a una Costituzione che la sua stessa parte politica ha fatto di tutto per stuprare, senza che nessuno dei suoi aprisse bocca per condannare quel delitto di genere. E poi via, a stappare lo spumante. Anzi, lo champagne, perché ormai questa Italia operosa e solidale se la sono nel frattempo comprati gli stranieri, prima di tutto i francesi.

In quella pagina bianca che gli elettori dovranno riempire il 4 marzo, a cominciare (se andranno ai seggi) da quei ragazzi del ’99 che verranno richiamati per la prima volta, il malcelato auspicio del presidente – adesso come sempre – è che vengano scritte le stesse parole che il suo conterraneo Giuseppe Tomasi di Lampedusa metteva in bocca al suo personaggio, il Principe di Salina, il Gattopardo: «perché nulla cambi, tutto deve cambiare».

Ne restano altri quattro, di questi discorsi, e poi anche della retorica dell’ultimo democristiano, come quella dell’ultimo comunista prima di lui, resterà soltanto come un brutto ricordo. Speriamo solo che a quel tempo esista ancora una nazione italiana.

Buon 2018 a tutti.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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