Non si è re o regine per caso. Nel momento in cui il suo primo ministro Boris Johnson versa in gravi condizioni (ricoverato ieri in terapia intensiva per l’aggravarsi della sua salute a dieci giorni dal riscontro della positività al coronavirus), in un’altra delle ore più buie per sé e per il mondo intero l’Inghilterra ritrova come per incanto una leadership attorno alla quale stringersi come un sol uomo.
E’ quella di una donna, e neanche questa è una novità per Albione, abituata sia in tempo di pace che di guerra a seguire orgogliosa le proprie regine quanto i propri re. Da Boadicea che ne risvegliò il sentimento nazionale contro gli invasori romani, alla Grande Elisabetta che la chiamò alle armi contro gli invasori spagnoli, alla Grande Vittoria che resse sulla propria testa la corona di un impero quale non si era mai visto nella storia umana. Fino a quella Margaret Thatcher che al suo paese ha saputo ritrovare un ruolo non proprio scontato alla guida del mondo moderno.
Tocca adesso ad un’altra Elisabetta, la seconda del suo nome, destinata ad un posto nella storia britannica non inferiore a quello della prima. E dire che l’attuale regina, dall’alto della sua veneranda età (compirà 94 anni il prossimo 21 aprile), potrebbe ben dire di esserselo già ampiamente guadagnato il suo ritratto nella galleria dei grandi sovrani inglesi. A cominciare dai suoi esordi, da quando ragazzina appena maggiorenne prese il suo posto accanto al padre alla guida del suo popolo, ultimo rimasto a resistere ad Hitler. Ed alla guida delle ambulanze sotto le bombe tedesche che devastavano Londra, autista e meccanico inquadrata nell’Auxiliary Territorial Service (ufficiale subalterno Elizabeth Windsor, matricola n. 230873).
Giovane figlia di un re altrettanto coraggioso, che prima ancora dei nazisti aveva sconfitto il proprio disturbo della parola consegnando alla storia il discorso che il 3 settembre 1939 ricompattò una nazione trovatasi in guerra contro la Germania nazista quasi senza sapere perché. Il discorso del re, così è passato alla storia ed al cinema. In un momento in cui ancora l’Inghilterra non aveva trovato in Winston Churchill il capo in grado di guidarla alla vittoria, fu Giorgio VI a parlare, a dire agli inglesi le cose che sapevano già di se stessi. Da quel momento ognuno seppe qual era il suo posto e cosa doveva fare per la sopravvivenza del paese. A cominciare dalla tredicenne figlia del re, che poco dopo il padre si ritrovò anch’essa davanti ai microfoni della BBC, per dare coraggio a quei suoi coetanei che venivano imbarcati per i paesi del Commonwealth, separati dalle famiglie nel momento in cui l’invasione tedesca sembrava essere qualcosa di più di una possibilità.
Ottanta anni dopo, Elisabetta II d’Inghilterra torna davanti a quei microfoni, e la circostanza se possibile è altrettanto drammatica. Stavolta il nemico non è un esercito formidabile guidato da una personificazione del male, qualcosa di fin troppo e terribilmente visibile. Stavolta il nemico è il più piccolo dei nostri avversari esistenti in natura, il virus che porta una corona molto meno prestigiosa di quella della sovrana.
Che se la rimette metaforicamente in testa per parlare al paese, un discorso di quattro minuti scritto di suo pugno che prende al cuore, commuove e dà coraggio quanto quello del padre. Stavolta il Premier non è in Parlamento a farsi votare la fiducia, ma in ospedale a farsi salvare la vita (tra i commenti di scherno di chi come al solito della mentalità inglese non ha capito nulla). Albione, che qualcuno ancora oggi vorrebbe definire perfida, ha evidentemente degli anticorpi particolari. Quando cadono i leader maschi, ecco le femmine che si fanno trovare pronte.
Sua Maestà potrebbe ricorrere a molti archetipi in quei quattro minuti in cui parla al suo popolo. Da Horatio Nelson (l’Inghilterra si aspetta che ognuno di voi faccia il proprio dovere), a Winston Churchill (Vittoria a tutti i costi, vittoria malgrado qualunque terrore, vittoria per quanto lunga e dura possa essere la strada, perché senza vittoria non c’è sopravvivenza), alla grande regina prima del suo nome (Per l’amor del cielo, l’Inghilterra non cadrà finché sarò regina!). O a se stessa (Io dichiaro davanti a voi tutti che tutta la mia vita, sia essa lunga o breve, sarà dedicata al vostro servizio e al servizio della nostra grande famiglia imperiale a cui tutti apparteniamo….. Appartengo al mio popolo, ma non come intendeva Elisabetta I. Non ho scelto io di essere regina, so ciò che si attendono da me, manterrò i miei impegni).
Sceglie invece un profilo basso, mentre scorrono le sue parole che ringraziano gli eroi del National Health Service in sottofondo scorrono le loro immagini, medici e infermieri che si bardano per andare alla guerra con il virus, come cavalieri medioevali. Gli eroi che avvicinano il paese ogni momento di più alla fine di questa battaglia, come quelli in divisa militare fecero negli anni quaranta. Gli eroi civili che oggi fanno il loro dovere restando a casa, così come ottanta anni fa lo fecero uscendone, anche sotto le bombe. Gli eroi che piangono in silenzio, senza lacrime, la perdita dei propri cari, ora come allora.
«Spero che negli anni a venire ognuno di noi potrà essere orgoglioso del modo in cui ha risposto a questa sfida». Ecco che fa capolino la citazione di Churchill (l’ora più grande, anche tra mille anni). Ma c’é di più. La regina che viene da un altro tempo conserva una lucidità mentale ed una regalità nelle argomentazioni che le consente di leggere ed interpretare questi tempi moderni così difficili come pochi altri.
«Self discipline, quite good humoured resolve, fellow feeling, sono ancora le caratteristiche di questa nazione…. l’orgoglio per quello che siamo non è parte del nostro passato, ma definisce il nostro presente ed il nostro futuro».
Non si diventa regine per caso, anche se Elisabetta un giorno rese chiaro di non aver scelto lei quel destino. Ma di essere comunque pronta. Le immagini degli arcobaleni disegnati dai bambini inglesi e affissi in tutti gli ospedali del regno si dissolvono in quelle, storiche, delle giovani Elizabeth e Margaret Windsor che ottant’anni fa consolavano altri bambini a cui sembrava non rimanesse neppure la possibilità o il tempo di lasciare dietro di sé ai propri familiari un ultimo disegno.
Un doloroso senso di separazione dai propri cari, ora come allora. Ma la consapevolezza che stavolta l’Inghilterra non è sola, e combatte con il resto del mondo nello sforzo comune con le armi della scienza.
We will succeed. Ce la faremo. E quel successo apparterrà a ciascuno di noi.
We will meet again. La regina chiude con quel refrain della canzone di Vera Lynn che andava per la maggiore nei suoi anni verdi, gli anni bui della sua generazione.
Non si è regine per caso. E il mondo, non soltanto l’Inghilterra, forse ha ancora bisogno di Sua Maestà la Regina Elisabetta.
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