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Il Duca del West

John Wayne - Marion Robert Morrison (26 maggio 1907 – 11 giugno 1979)

(John Wayne, pseudonimo di Marion Robert Morrison, 26 maggio 1907, Winterset, Iowa, – 11 giugno 1979, Los Angele, California)

Il suo nome di battesimo, Marion Robert Morrison (poi diventato Marion Mitchell Morrison alla nascita del fratello minore che si prese il nome Robert) non gli piaceva troppo, né piaceva ai dirigenti della Twentieth Century Fox che lo avevano messo sotto contratto ancora molto giovane, avendo intravisto nel ragazzo che studiava legge alla University of Southern California a Los Angeles, mantenendosi agli studi grazie ad una borsa guadagnata giocando a football, il perfetto eroe americano a cui affidare il ruolo da protagonista in una lunga serie di successi cinematografici.

E dire che con lo stesso identico nome suo nonno aveva combattuto nella guerra civile nella Legione Irlandese, essendo a sua volta figlio di un immigrato dall’Ulster, Robert anch’egli, proveniente dalla contea di Antrim ai primi dell’Ottocento.

Ringo Kid in Ombre rosse (1939)

Quando il ragazzo ebbe la sua prima parte da protagonista, nel Grande sentiero di Raoul Walsh, erano tutti d’accordo a trovargli un nome più adatto, un nome d’arte. Walsh suggerì Anthony Wayne, in onore di Mad Anthony, generale che aveva combattuto nella guerra di indipendenza sotto Washington. Winfield Sheehan, capo della Fox, non era convinto, e così Walsh ripiegò su John Wayne. Ineccepibile, la metà degli eroi americani si chiamano John. Malgrado non fosse stato interpellato, il ragazzo accettò al volo, insieme ai contratti che subito dopo seguirono.

A Glendale nella contea di Los Angeles, dove aveva vissuto con la famiglia prima di trasferirsi nella metropoli a tentare la via del successo come molti suoi connazionali attratti dal vecchio pueblo spagnolo improvvisamente trasformatosi nella Mecca del Cinema, Marion era stato soprannominato Duke. Big Duke, per la precisione, poiché andava in giro sempre con il suo airedale terrier di nome Little Duke. E il soprannome, a lui gradito più di ogni altro appellativo anagrafico o artistico, gli sarebbe rimasto addosso per tutta la vita.

Un uomo tranquillo (1952), ritorno alle sue origini irlandesi

Come molti altri ragazzi del suo paese, il Duca John aveva avuto gli inizi difficili del self made man americano. Studente che accettava tutti i lavoretti, anche i più umili come lavapiatti e cameriere, per integrare la borsa di studio assicuratagli dal football secondo un’usanza tipicamente americana (e destinata a mostrare tutti i suoi limiti allorché, infortunatosi a fare surf, si vide costretto a smettere con lo sport e perse di colpo anche il titolo a ricevere il sussidio, dovendo interrompere anche gli studi), John sopravvisse alla sfortuna perché grazie al football era entrato nel giro del cinema.

Aveva conosciuto allo stadio la leggenda dei film western, Tom Mix, e colui che prometteva di diventarne il regista più famoso, John Ford. Procurare a costoro i biglietti per le partite gli valse a sua volta il biglietto d’ingresso per Hollywood. Da Tom Mix avrebbe ereditato il suo ruolo prediletto, il cowboy uomo della frontiera; di John Ford sarebbe stato l’interprete prediletto in circa venti film per un periodo di trentacinque anni di carriera. Da Wyatt Earp, l’uomo dell’OK Corral che lui conobbe personalmente, avrebbe mutuato lo stile di recitazione, essenziale, tutto d’un pezzo, in una parola: americano.

Sentieri selvaggi (1956)

E americano fu, nel bene e nel male, diventando molto più di una leggenda a partire da Ombre rosse, il film con cui John Ford lo caricò nel 1939 sulla stagecoach, la diligenza inseguita dagli indiani, indirizzandolo verso la gloria cinematografica. Fino al Pistolero, ultimo e praticamente autobiografico film interpretato nel 1976 per la regia di Don Siegel, quando ormai le sue condizioni di salute cominciavano a farsi critiche.

John Wayne è stato per il cinema e per la politica americani ciò che il cinema e la politica americani sono stati per il mondo occidentale del dopoguerra. Un modello integro, che non lasciava spazio a sfaccettature, a chiaroscuri, a compromessi, che si poteva accettare o rifiutare, ma a condizione in ogni caso di farlo in toto.

Decisamente anticomunista, era stato tra i promotori e i dirigenti della Società cinematografica per la salvaguardia degli ideali americani, un’associazione conservatrice il cui programma era quello di denunciare e allontanare i simpatizzanti comunisti dall’industria del cinema. Una specie di maccartismo ante litteram.

I berretti verdi (1968)

La sua storia della Conquista del West ha rappresentato per generazioni di americani e per il pubblico di tutto il mondo una versione ufficiale ed in cinemascope di una vicenda dalle mille pagine non sempre gratificanti, che relegava tra l’altro i nativi americani al ruolo degli ostili selvaggi, delle ombre rosse da ricacciare indietro a cui erano stati consegnati da Hollywood fin dai suoi esordi. Una narrazione che sarebbe stata messa in discussione a partire dal Soldato Blu di Ralph Nelson, con lui ancora vivo ed abbastanza vegeto.

La sua rappresentazione del ruolo americano nel mondo sarebbe stata altrettanto patriottica, senza ombre. A parte quelle rappresentate anche in questo caso dai nemici, che avrebbero avuto stavolta un altro colore etnico, il giallo. Berretti verdi è un film che si può amare o odiare, non ci sono vie di mezzo. Il Vietnam ha dilaniato le coscienze occidentali per più di una generazione, e John Wayne non poteva sperare di riunire tutti sotto la bandiera a stelle e strisce anche in quella circostanza.

Il giorno più lungo (1962)

Eppure, in quel suo modo di essere americano tutto d’un pezzo, senza chiaroscuri come ogni vero americano che si rispetti, c’é un bene ed un male come in tutte le cose, ma il bene a nostro giudizio finisce sempre in ogni caso – anzi, in ogni film – per trionfare, per far prevalere la sua faccia ingenua quanto si vuole ma rassicurante.

Il cacciatore di indiani Wayne raggiunse il suo momento di maggior gloria nel 1956, con quel Sentieri selvaggi che rappresenta il momento forse più classico ma anche meno obbiettivo della storia dell’incontro-scontro tra bianchi e pellirosse. Quello zio Ethan che nel film giura e compie la sua implacabile vendetta contro il selvaggio capo Scout, sembra la trasposizione sullo schermo del celebre aforisma del generale Philip Sheridan, figura storica della guerra civile e delle guerre indiane: «Il solo indiano buono che conosco è l’indiano morto». Eppure, l’implacabile Ethan riporta a casa sana e salva la nipote Debbie, accettando il fatto che ormai sembra una comanche piuttosto che l’unica superstite della sua famiglia sterminata dagli indiani.

L’anticomunista Wayne nel 1968 divenne il bersaglio della contestazione anti-Vietnam quanto e più dei presidenti Johnson e Nixon. I Berretti verdi non erano popolari tra i giovani, né quelli americani che aspettavano con preoccupazione la chiamata alle armi, né quelli europei in cerca di bersagli che mettessero insieme antiamericanismo e sinistrismo contestatario. Quel film Wayne dovette girarlo personalmente, non trovando un regista disposto a scommetterci sopra.

John Wayne e Richard Widmark (Alamo – 1960)

Il risultato fu controverso, e seguì lo spartitraffico delle ideologie contrapposte. Indubbiamente, come già successo agli indiani, ai vietnamiti non filoamericani, ai vietcong in esso venne lasciato poco spazio per reclamizzare la propria versione dei fatti. Ma alla fine è il berretto verde Wayne che prende per mano il piccolo vietnamita rimasto orfano, ed è lui che se lo porta a casa adottandolo. Evitandogli probabilmente un futuro assai gramo nella Repubblica Popolare Vietnamita che sarebbe sorta di lì a poco.

Non si può chiedere a John Wayne, né agli americani in genere della sua generazione, alcuna sottigliezza ideologico-interpretativa. Né, probabilmente, quella certa obbiettività a cui siamo stati abituati dalle generazioni successive del cinema americano. Ma la sua versione dei fatti il Duca ha saputo raccontarla come nessun altro.

Non soltanto per John Ford egli è stato l’attore perfetto, e questo il pubblico glielo ha sempre riconosciuto, fino alla standing ovation finale nel 1979 alla notte degli Oscar, dove volle essere presente per introdurre il premio conferito a Michael Cimino per il western all’epoca più dissimile da quelli che aveva interpretato lui: I cancelli del cielo.

Il Grinta (1975)

Due mesi dopo veniva accompagnato dai suoi sette figli (quattro dei quali, nati negli anni trenta, gli avevano impedito per legge di prendere parte alla seconda guerra mondiale, come sarebbe stato suo desiderio) al cimitero di Corona del Mar, a Newport Beach, California. Il suo ultimo viaggio, come quello del Pistolero con cui aveva dato addio alle scene.

Pochi mesi dopo ancora, uno che gli somigliava molto, Ronald Reagan, alzò la mano per giurare fedeltà come 40° presidente degli Stati Uniti d’America. Qualcosa del Duca, e della sua naif ma rassicurante ideologia a stelle e strisce, era evidentemente rimasto, nelle grandi praterie che aveva percorso in lungo e in largo con i suoi personaggi.

Gli americani lo ricordano per aver raccontato la loro storia e averne fatto un’epopea come nessun altro, da Fort Alamo a Gettysburg a Omaha Beach. E per avere ridato orgoglio ad un paese che fino ad un certo punto ne aveva anche troppo, ma che poi l’aveva completamente smarrito. Non è un caso se il personaggio che alla fine della carriera gli è valso finalmente l’Oscar si chiamava Il Grinta.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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