(TRIESTE) – P., nata nel capoluogo della Venezia Giulia, non ha conosciuto suo nonno materno. E’ sparito nel maggio 1945. Sua madre, 7 anni, era alla messa con la mamma e la sorella quando la polizia politica di Jozip Broz, detto Tito, dittatore della neonata Jugoslavia e occupante dell’Istria italiana, venne a prenderlo a casa, dove era tornato da pochi giorni in congedo alla fine della seconda guerra mondiale, nella quale aveva servito il suo paese nella Regia Marina.
Il nonno di P., sottufficiale di Marina in congedo, sicuramente senza alcun disonore e con il semplice stato di servizio di servitore della patria riuscì a ricevere un’unica visita della moglie, dopodiché sparì nel nulla, come tanti altri. Quasi ottanta anni dopo, si suppone che il suo corpo giaccia in una delle Foibe, quelle fenditure del terreno di cui è piena la Venezia Giulia, dal Carso all’Istria.
Né la Jugoslavia, né gli Stati che le sono successi alla morte del dittatore Tito, uno dei tanti boia che sono morti nel proprio letto solo grazie a fortunate congiunture politiche (la Guerra Fredda, per capirci), hanno ritenuto opportuno anche soltanto ammettere il massacro, figuriamoci la sua entità e l’ubicazione delle sue vittime. Del resto, l’Unione Europea ed i suoi comitati d’affari hanno introdotto nella storia d’Europa recente ben altre problematiche, e la ex Jugoslavia ha fatto e fa gola a molti cosiddetti investitori. La storia va avanti, magari verso altre tragedie, ma a modo suo va avanti.
La madre di P. non rivide più suo padre vivo, dopo quella domenica del 1945, e poco dopo dovette lasciare la sua casa e tutti i suoi beni di famiglia, a pena della perdita anche del ricordo della sua famiglia e della sua identità italiana. Dovette vivere anni da profuga nelle baracche allestite a Trieste, ultima città salvata dall’Italia ad est e ultimo rifugio dei profughi scampati al pogrom jugoslavo, prima di riuscire a costruirsi una nuova vita e ad accantonare (ma solo apparentemente) i ricordi di una tragedia subita nella sua famiglia e nel suo essere.
Dopo quasi ottant’anni, la madre di P. non riesce (e non riuscirà mai) a parlare della sua infanzia, di suo padre, della vita di quegli anni, senza dover lottare con una commozione invano repressa. La signora, come tanti altri istriani, non riesce a ritornare (se proprio deve) nei luoghi natii nell’attuale Jugoslavia (o come diavolo si chiama adesso), o a sentir parlare una qualsiasi delle lingue slave, senza provare un moto che va dalla repulsione alla commozione travolgente.
Se mi permetto di parlare di questa storia privata è solo perché, conoscendo il suo contesto storico a causa dei miei studi fatti molto tempo prima di conoscere dei sopravvissuti ed ex profughi istriani, sono stato in grado di capire (almeno a livello razionale) cosa essa abbia comportato per chi l’ha vissuta sulla sua pelle. E anche perché questa storia dà fondamento, giustifica e sostanzia in particolar modo la sensazione di disgusto che provo – in maniera sempre più crescente – per questo paese in cui sono nato, e che anche io, come il nonno di P., ho servito a suo tempo come ufficiale dell’esercito. Disgusto per questo paese e soprattutto per le sue istituzioni e chi le rappresenta, che in circostanze come questa del 10 febbraio appunto si rinnova e si rafforza.
Oggi è un’altra giornata della memoria. Volutamente disgiunta da quella celebrata il 27 gennaio, perché con una legge tardiva lo stato italiano prese atto soltanto nel 2004 della triste sorte capitata a tanti nostri connazionali nei territori dell’Istria, della Dalmazia e della Venezia Giulia e intese dare una ben magra soddisfazione ai sopravvissuti degli eccidi comunisti jugoslavi ed agli eredi delle relative vittime.
La legge, presentata al Parlamento nazionale per iniziativa del deputato triestino Roberto Menia e del suo partito, allora denominato Alleanza Nazionale, arrivò meglio tardi che mai a colmare una lacuna soprattutto culturale prima ancora che giuridica nel nostro ordinamento e nella nostra coscienza civile.
Nei sessant’anni precedenti, infatti, mai si era fatta parola della tragedia degli istriani, in ossequio ad una cultura di sinistra imperante che aveva nella migliore delle ipotesi omesso (quando addirittura non negato) l’esistenza delle Foibe in cui furono gettati dopo essere stati brutalmente soppressi (non sempre si ricorse alla misericordiosa prassi della fucilazione) tutti coloro che caddero a partire dal maggio 1945 in mano jugoslava e che avevano la sfortuna di essere italiani non iscritti al partito comunista. Per sessant’anni fu lasciato esclusivamente al Movimento sociale Italiano prima e ad Alleanza nazionale il compito di risvegliare la memoria di quella tragedia e delle sue conseguenze.
La legge del 2004 (*) non fece altro che ristabilire una verità storica fino ad allora colpevolmente taciuta da tutte le forze politiche per mera convenienza, e dotare gli ultimi superstiti dell’Olocausto titino di una targa commemorativa in acciaio brunito con su scritto: La Repubblica ricorda. Ma almeno si è introdotta nel calendario, se non nella nostra coscienza distratta, una ricorrenza che dovrebbe far riflettere al pari di quella simboleggiata dalla liberazione del campo di Auschwitz-Birkenau. Tra parentesi, la data del 10 febbraio non fu scelta a caso, richiamandosi a quel giorno del 1947 in cui l’Italia firmò il Trattato di pace con gli Alleati, riconoscendo così e sanzionando tutte le perdite subite sia da un punto di vista territoriale che delle vite umane e dei beni patrimoniali appartenuti alle famiglie italiane che su quei territori erano state spazzate via dalla guerra.
Il Giorno del Ricordo era un’altra occasione di riflessione, si diceva. Invece niente, o quasi, fino a poco tempo fa. A parte una pregevole ma fugace fiction interpretata anni fa dal bravo Beppe Fiorello, ogni 10 febbraio è passato nell’indifferenza di istituzioni, forze politiche e società civile. Sopra tutti, va detto, hanno brillato i Presidenti della Repubblica ultimamente in carica: Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella.
Entrambi espressione diretta del partito democratico (il primo addirittura storicamente legato a quel P.C.I. che nel 1956 dopo il boia Tito aveva applaudito anche i carri armati sovietici che soffocarono nel sangue la rivolta ungherese), non hanno mai mancato di rimarcare con la loro prosa spesso e volentieri ultraretorica ogni occasione storica o di attualità che si è loro presentata. Tutte meno questa.
Poi sono venuti il Magazzino 18 di Simone Cristicchi e il Red Land Rosso Istria della RAI, ed il vento pare che finalmente stia cambiando. Anche grazie ad un centrodestra in ascesa che storicamente ha sempre fatto sua la battaglia per rendere giustizia non solo ai poveri martiri di Tito e compagni, ma anche e soprattutto alla verità storica: e cioé che le vittime del comunismo assassino non valgono meno di quelle del fascismo, del nazismo e di tutte le altre follie politiche e religiose escogitate dalla razza umana per far strage di se stessa.
A ben vedere, la nostra classe politica è tuttavia espressione di una società civile che ha perso da tempo quel poco di dignità consegnatole in eredità da coloro che oltre settant’anni fa persero la vita perché noi oggi potessimo permetterci perfino di dimenticare o ignorare la loro esistenza.
(*) Legge 30 marzo 2004 n. 92 – Istituzione del giorno del Ricordo – «La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del ricordo” al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale. Nella giornata […] sono previste iniziative per diffondere la conoscenza dei tragici eventi presso i giovani delle scuole di ogni ordine e grado. È altresì favorita, da parte di istituzioni ed enti, la realizzazione di studi, convegni, incontri e dibattiti in modo da conservare la memoria di quelle vicende. Tali iniziative sono, inoltre, volte a valorizzare il patrimonio culturale, storico, letterario e artistico degli italiani dell’Istria, di Fiume e delle coste dalmate, in particolare ponendo in rilievo il contributo degli stessi, negli anni trascorsi e negli anni presenti, allo sviluppo sociale e culturale del territorio della costa nord-orientale adriatica ed altresì a preservare le tradizioni delle comunità istriano-dalmate residenti nel territorio nazionale e all’estero».
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