Sempre difficile districarsi in quel guazzabuglio che erano i calendari di una volta, ma al netto della celebre sfasatura tra calendario giuliano e calendario gregoriano che ha diviso in due l’era cristiana quella di oggi dovrebbe essere la ricorrenza della deposizione dell’imperatore romano Commodo.
Il 31 dicembre dell’anno 192 d. C. una congiura di pretoriani e di senatori mise fine – nel modo in cui usava allora – al regno del figlio di Marco Aurelio, che a differenza di quello del padre (che se lo era associato al trono nel 177 d.C. e che era venuto a mancare tre anni dopo lasciandolo appunto imperatore) era stato assai poco illuminato, anche a voler fare la tara su tutte le voci e le cronache che dipingono Commodo come un despota sanguinario.
Non lo fu, a quanto pare, se non nella stessa misura in cui lo erano stati i suoi predecessori, con l’eccezione di Caligola. Fu uno dei pochi prima di Costantino a non perseguitare i cristiani. Fu il tipico imperatore amato dal popolo a cui elargiva generosamente panem et circenses, e dall’esercito al quale commissionò la prosecuzione delle campagne militari del padre, che aveva mantenuto l’impero al suo apogeo raggiunto al tempo di Traiano.
Non lo fu sicuramente come ce lo dipinge Ridley Scott, che riprendendo la vulgata cinematografica di un vecchio film del 1964 (La caduta dell’impero romano, di Anthony Mann) ne fa il protagonista negativo del Gladiatore. Uno dei film più belli in assoluto della storia del cinema ed anche uno dei più infondati dal punto di vista storico. Spettacolare ed efficace nel descrivere la vita di un romano come Massimo Decimo Meridio, generale dell’impero declassato (all’epoca succedeva) a gladiatore nell’arena del Colosseo, il film si discosta completamente dalla verità storica a cominciare dalla scena in cui è proprio il giovane Cesare Commodo ad uccidere il padre nell’accampamento in Germania, anziché la peste che flagellava quelle terre all’epoca.
«Mi chiamo Massimo Decimo Meridio, comandante dell’esercito del Nord, generale delle legioni Felix, servo leale dell’unico vero imperatore Marco Aurelio. Padre di un figlio assassinato, marito di una moglie uccisa… e avrò la mia vendetta… in questa vita o nell’altra.»
Ci siamo entusiasmati tutti a sentire declamare queste frasi da Russell Crowe nei panni del gladiatore. Peccato che non furono mai pronunciate, così come la sorella di Commodo, Lucilla, non celebrò mai le onoranze funebri del fratello deposto nell’arena e dell’amato gladiatore che alla fine aveva ottenuto la sua vendetta, men che meno restaurando la vecchia Repubblica Romana.
Resta un gran film, come tutti quelli di Ridley Scott. Fu uno dei primi tra l’altro in cui si ricorse ad uno stratagemma digitale per ovviare alla scomparsa di uno degli attori, Quell’Oliver Reed che interpretava Proximo, l’impresario dei gladiatori, venuto a mancare durante le riprese. Fu uno degli ultimi in cui recitò Richard Harris, nei panni di un Marco Aurelio credibilissimo al di là delle infedeltà storiche più o meno volutamente commesse dal regista e dalla produzione.
Fu soprattutto l’esplosione di Russell Crowe, a cui furono affidati i panni e le gesta di Massimo Decimo Meridio, dopo che nell’ordine Mel Gibson, Antonio Banderas e Hugh Jackman avevano declinato o erano stati scartati. Non li fece rimpiangere.
E fu infine questa splendida colonna sonora, composta da Hans Zimmer e cantata da Lisa Gerrard (vocalist del gruppo Dead Can Dance).
«Io ti reincontrerò un giorno… ma non ancora. Non ancora.»
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