Il Centrodestra eguaglia la nazionale di calcio della Germania del 2014, surclassando il PD per sette gol senza nemmeno incassare quello della bandiera come avvenne ai tedeschi a Belo Horizonte nel Mineiraço (*). La Basilicata è liberata dopo 25 anni di occupazione di sinistra, twitta stamattina Giorgia Meloni. 42% contro 32%, Lega che triplica i voti, PD che li vede ridotti a cifre da prefisso telefonico, Cinque Stelle che – correndo da soli – tengono, rimanendo il primo partito di una regione dove il problema principale è cosa fare di Tempa Rossa e di altre eredità di una amministrazione che ha trattato l’ambiente come le persone che ci vivono: bene a parole, malissimo nei fatti, peggio che mai nelle prospettive.
7 a 0 e palla al centro. Il centrodestra passa in vantaggio nelle Regioni amministrate per 11 a 9, in attesa dei supplementari. L’anno prossimo si vota in Toscana, e il PD locale sta facendo di tutto per consegnare a Lega e alleati le chiavi di quello che è veramente l’ultimo baluardo, l’ultima ridotta del post-comunismo nostrano. Cominciata qui nel 1921, la storia qui può concludersi nel 2020, cifra quasi tonda. Nei numeri a volte c’é una poesia, ma anche una filosofia, che vanno ben oltre la pura matematica.
Il vecchio arnese ulivista Walter Veltroni, tirato fuori dalla naftalina per l’occasione (Zingaretti ha già esaurito la sua spinta propulsiva?), cerca di spiegare con la sua consueta mancanza di lucidità le ragioni della crisi epocale di un partito, quello fondato da lui nel 2007 sulle ceneri di esperimenti a vario titolo già bocciati dalla storia, che ormai riesce puntualmente in una cosa sola: rendersi odioso alle moltitudini di tutte le latitudini.
Dice l’ex sindaco di Roma: «bisogna decidere cosa si vuole essere, di destra o di sinistra!». No, caro Veltroni, bisognava decidere da che parte stare. Da quella della gente che si amministra o da quella di èlites che ormai scambiano Capalbio e Francoforte per i luoghi dove si alza la canzone popolare, come cantava, come cantava ai bei tempi un Ivano Fossati che probabilmente ormai disconoscerà la sua stessa canzone. Visti i risultati.
Bisognava anche rendersi conto – ma Marx questo l’aveva spiegato per tempo e chiaramente, se solo qualcuno di coloro che a lui si richiamavano e si richiamano avesse voluto leggerlo almeno una volta e con attenzione – che i fenomeni italiani si inseriscono nelle correnti profonde di quelli europei e mondiali. Come a Belo Horizonte, al Centrodestra che vince di goleada resta l’ultima partita da giocare, e per la quale è favorito come la Germania cinque anni fa: le elezioni europee.
Le quali, è facile pronostico prevedere teatro di una valanga di destra, da parte di elettori europei che in vario modo della sinistra e delle sue battaglie politically correct e sistematicamente a favore di tutti meno che della popolazione di questo continente, non ne possono più. La Lega di Salvini ha la possibilità storica di mettere a referto un en plein, sia che resti nella coalizione gialloverde (completando il programma del contratto di governo, che già sarebbe una mano santa per ridare ossigeno a questo paese oltre che per accreditarlo come leader degli scontenti europei), sia che passi ad una coalizione di centrodestra, con Berlusconi e Meloni ridimensionati al ruolo di comprimari.
Tutto ciò mentre negli altri 26 paesi membri (la Gran Bretagna ha già fatto sapere che non voterà, anche se la Brexit sarà con ogni probabilità rinviata) ogni elettorato voterà – per gli stessi motivi degli italiani – la destra che si ritrova, che il suo quadro politico gli mette a disposizione. La narrazione del PD è quella secondo cui in tal caso vincerebbero i cattivi, i neofascisti, i neonazisti. La percezione della gente è che la nottata a cui scampare sia quella appena trascorsa, degli ultimi dieci anni. Chissà che film si farà per l’occasione il vecchio cinefilo post-comunista Walter Veltroni.
Spirano venti poco propizi per il PD anche dall’Atlantico. Negli U.S.A., il partito omonimo ha perso probabilmente la battaglia decisiva contro Trump, quella del Russiagate. Il partito che si è reso odioso agli americani quanto e più che quello nostrano agli italiani, si è sentito dire dal Superprocuratore appositamente nominato da Camera e Senato di Capitol Hill che «il fatto non sussiste».
Il presidente è innocente, dell’hackeraggio delle elezioni del 2016 non c’é prova, i sogni democratici di ripetere l’impeachment con cui fu cacciato Nixon all’epoca del Watergate rimarranno nel cassetto (film classificati come B movie, altrettanto mal scritti e peggio realizzati di quelli di Veltroni). L’affaire si è dimostrato una trappola allestita ad arte prima da Obama, il presidente uscente, e poi dalla Clinton, la candidata alla sua successione. Non avevano fatto tuttavia i conti con un oste capace di vincere le libere elezioni senza vendere il suo paese ad una potenza straniera percepita ancora dall’americano medio come ostile ed inquietante, malgrado dalla fine della Guerra Fredda siano passati ormai 30 anni.
E adesso, poveri democratici? Adesso, conoscendo la mentalità americana, a qualcuno sarà presentato il conto, assai salato, delle spese del denaro dei contribuenti sperperato in questi due anni di maxi-indagine sul nulla. E da quelle parti lo sperpero di denaro pubblico è considerato peggior reato dell’omicidio.
L’altro conto sarà presentato verosimilmente alle successive elezioni presidenziali, l’anno prossimo. L’America ha ripreso a viaggiare spedita, la sua economia tira, ed il suo presidente sa quello che fa, con buona pace di cacciatori di scoop invecchiati come Bob Woodward, che morirà senza aver rivissuto i giorni gloriosi in cui abbatté un altro presidente insieme al collega Carl Bernstein.
Tira un vento freddo, artico, per i sogni della sinistra di fare di tutto il mondo una Capalbio, un Greewich Village. Fossimo nei democrats, ci augureremmo soltanto di non dover tornare a votare più.
(*) Mineiraço 2014, la replica del Maracanaço del 1950, la seconda clamorosa sconfitta della nazionale brasiliana nel mondiale casalingo che doveva assolutamente vincere.
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