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Il mio nome è Connery, Sean Connery

La sua entrata in scena non fu assolutamente travolgente. Teatrale sì, ma per nulla enfatica. Il film era cominciato da diversi minuti, introdotto da quella gunbarrel che sarebbe diventata la sequenza iniziale più celebre della storia del cinema. Tutto il Servizio Segreto britannico cercava da ore il suo agente migliore, matricola 007 con licenza di uccidere. La macchina da presa lo inquadrò ad un certo punto, completamente rilassato con la sigaretta in bocca e le carte in mano. Il mondo era sull’orlo di una delle tanti catastrofi rischiate o immaginate all’epoca, ma James Bond terminò con l’aplomb connaturato alla sua razza e i nervi d’acciaio che avremmo imparato a conoscergli la partita in corso, prima di rientrare all’MI6 dove l’Inghilterra lo aspettava per affidargli la sua prima missione.

Non era la prima in realtà per il personaggio creato dalla fantasia di Ian Fleming, né era la prima prova d’attore per Thomas Sean Connery, scozzese di Edinburgo che dopo i consueti mille mestieri tentati ed una carriera nella Royal Navy stroncata da un’ulcera gastrica che lo rese riformato tentò la strada del cinema. Senza immaginare che un giorno la Regina di quella Gran Bretagna che da scozzese di origini irlandesi la sua famiglia detestava per motivi atavici lo avrebbe giudicato meritevole della nomina a Sir, baronetto, a fronte dei numerosi ed incredibili successi ottenuti dalle sue interpretazioni sul grande schermo.

Connery aveva già all’attivo tredici parti – l’ultima delle quali nel Giorno più lungo di Ken Annakin del 1961, la ricostruzione in versione kolossal dello Sbarco in Normandia dove lui interpreta un soldato inglese che prende terra (in modo assai scanzonato) sulla spiaggia Sword – quando la fortuna gli arrise in maniera meritatamente (con il senno di poi) sfacciata.

Due giovani produttori americani nordamericani, lo statunitense Albert Broccoli ed il canadese Harry Saltzman, avevano acquistato da Ian Fleming i diritti di trasposizione cinematografica delle avventure dell’agente 007. Tutti meno quelli relativi al primo storico romanzo, quel Casino Royale che era stato già ridotto per la televisione e che per quasi 50 anni non sarebbe stato utilizzabile (lo avrebbe fatto Martin Campbell nel 2006 con l’interpretazione di Daniel Craig).

Il primo titolo utile era Doctor No (in Italia, Licenza di uccidere). Il mostro sacro dell’epoca individuato come faccia da James Bond era nientemeno che Cary Grant, che oltretutto veniva da successi come Intrigo internazionale e Caccia al ladro di Alfred Hitchcock, nei quali aveva mostrato una notevole disposizione al genere action-movie. Ma Grant era occupato, e la produzione dovette ripiegare su questo ragazzo di belle speranze. Bastò poco per rendersi conto che avevano fatto centro. Le prime parole di Connery – Bond in Doctor No, come tante altre cose di quel personaggio e di quella interpretazione, sono rimaste anch’esse nella storia del cinema: il mio nome è Bond, James Bond.

Sean Connery avrebbe interpretato 007 in sei film, Licenza di uccidere, Dalla Russia con amore, Goldfinger, Thunderball (Operazione Tuono), Si vive solo due volte e – dopo la parentesi di George Lazenby in Al servizio segreto di Sua MaestàUna cascata di diamanti. Dopodiché avrebbe deciso di mettersi alla prova con altri personaggi ed altre storie, lasciando un vuoto enorme da colmare. Chiunque fosse venuto dopo di lui, a cominciare da quell’altro bel tipo di Roger Moore (inglese purosangue, naturally british e abbondantemente rodato dal ruolo di Simon Templar), avrebbe dovuto fare i conti con quello sguardo di ghiaccio e quelle parole pronunciate con quel tono di voce: il mio nome è Bond.

Sean Connery lasciò il personaggio di 007 al suo destino (peraltro egregio) fino al 1983, anno in cui gli punse vaghezza di reinterpretarne i panni sconfessando quel mai più che aveva pronunciato nel 1971 sotto la Cascata di diamanti. Il suo remake di Thunderball si chiamò Mai dire mai, titolo autocelebrativo e autoironico. Fu un successo, malgrado gunbarrel, colonna sonora e tanti altri gadgets fossero rimasti al copyright di Broccoli e Saltzman che nel frattempo stavano salutando anche Roger Moore.

A quel punto, Sean Connery era una icona consacrata del cinema mondiale. L’hitchkockiano Marnie, la Donna di paglia, la Collina del disonore, i Cospiratori, la Rapina record a New York, i Riflessi in un occhio d’oro ed il fantascientifico sui generis Zardoz ne fecero un attore che non sbagliava un colpo. Quando Sidney Lumet lo richiamò per dargli i panni del colonnello Arbuthnot nell’Assassinio sull’Orient Express la sua recitazione ormai era degna di reggere il confronto teatrale con un Lawrence Olivier, un Peter O’Toole. Sul set del gioiellino L’Uomo che volle farsi re si divertì a rivaleggiare con un altro fuoriclasse, colui che aveva dato vita all’antitesi di 007, il Michael Caine/Harry Palmer di Ipcress e Funerale a Berlino. In Robin e Marian si permise di rivisitare in chiave crepuscolare e malinconicamente esistenzialista l’eroe più leggendario della letteratura inglese, Robin Hood. Esotismo ed avventura allo stato puro nel Vento e il Leone, di John Milius. Ancora fantascienza dalle suggestioni western in Atmosfera Zero, e poi di nuovo l’epica fantasy in Highlander l’Ultimo immortale, dove recita come maestro di spada del giovane guerriero Christopher Lambert.

Era tempo che il cinema desse a Connery ciò che era di Connery. E’ difficile che da un grande libro venga tirato fuori un grande film, ci riuscì Jean Jacques Annaud con il capolavoro di Umberto Eco, il Nome della Rosa. E’ quasi impossibile trovare un attore non solo all’altezza ma corrispondente all’immaginario di milioni di lettori fin nei dettagli, e ci riuscirono con Sean Connery che sembrava fatto apposta per Guglielmo da Baskerville, medioevale antesignano di Sherlock Holmes che lo stesso Eco non poteva non approvare. Risolvendo i misteri dell’abbazia, Connery vinse il BAFTA, l’Oscar cinematografico britannico. L’anno dopo vinse l’Oscar vero e proprio con il ruolo di Jimmy Malone, il coraggioso poliziotto che aiuta Elliot Ness/Kevin Costner a mettere dentro Al Capone/Robert De Niro, per la regia di Brian De Palma.

Era il padre perfetto di Harrison Ford/Indiana Jones nell’Ultima Crociata, era un controverso ma impeccabile ufficiale – e se non lo era lui…. – nel Presidio – Scena di un crimine, rimpatriata con Sidney Lumet. Era un comandante Marko Ramius che abbiamo amato tutti, a prescindere dalle idee politiche, nella Caccia a Ottobre Rosso ambientata da John McTiernan negli ultimi convulsi anni della Guerra Fredda secondo il copione scritto nel best seller di Tom Clancy.

Era un re, e lo fu sullo schermo sia in Robin Hood Principe dei Ladri (cameo finale come Riccardo Cuor di Leone) che nel Primo cavaliere (Re Artù alle prese col giovane e inquieto Richard Gere/Lancillotto). Di nuovo agente segreto in The Rock, di nuovo ladro gentiluomo in Entrapment, poi ancora l’avventura con la Leggenda degli Uomini Straordinari (Allan Quatermain, uscito dalla fantasia di Henry Rider Haggard).

Era l’anno in cui Sua Maestà la Regina Elisabetta lo fece Pari del Regno, e lui – affettando una burbera riottosità scozzese – si inginocchiò davanti a lei per farsi mettere al collo l’onorificenza. Era tempo per il vecchio eroe, il vecchio campione di appendere spade e moschetti sul focolare e dedicarsi a ruoli più riflessivi, intimisti, come il vecchio e introverso scrittore di Scoprendo Forrester.

Da allora lo si era visto di rado, ai tornei di tennis, o a qualche festival. Si rincorrevano le voci di una sua malattia, di un’età veneranda (90 anni) che gli stava presentando il conto. A lui che ogni anno era apparso più affascinante dell’ano precedente, e che aveva reso perfino la sua calvizie incipiente già ai tempi di 007 un impareggiabile sex symbol. Ma Sean Connery non invecchiava, non si ammalava, non poteva essere sconfitto.

Semplicemente, come il professor Jones, come Forrester, come il vecchio Robin che torna dalle Crociate, si era ritirato da qualche parte a curarsi le ferite in attesa che l’avventura tornasse a chiamarlo.

Ha chiuso gli occhi per l’ultima volta nelle sue Bahamas, vicino al luogo dove aveva visto uscire Ursula Andress dalla spuma del mare, come Venere. La prima delle Bond girls.

L’MI6 inglese pare abbia all’esame il provvedimento con cui ritira per sempre la matricola 007, come il Santos ritirò la maglia numero 10 di Pelé.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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