Cultura e Arte Evidenza

Il mio nome è Nessuno. E sono ognuno di voi.

«Musa, quell’uom di multiforme ingegno

dimmi, che molto errò, poich’ebbe a terra

gittate di Ilïòn le sacre torri…»

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E’ l’incipit più famoso dell’intera nostra letteratura. Traduzione dal greco di Ippolito Pindemonte, poeta neoclassico contemporaneo di Ugo Foscolo, la traduzione ufficiale almeno fino a quella della professoressa Rosa Calzecchi Onesti, realizzata negli anni cinquanta del ventesimo secolo in collaborazione con Cesare Pavese secondo un gusto ed una metrica più moderni.

Testo a fronte, per chi era ed è capace di leggere il Greco antico, il poema di Omero. Personaggio leggendario al pari dei protagonisti dei suoi versi, cantore cieco che secondo la tradizione girava per la Grecia raccontando a chi lo ospitava e lo sfamava l’antica storia mandata a memoria in forma di poema epico della conquista della città di Troia e di cos’era successo dopo al più celebre dei suoi conquistatori.

Oltre tremila anni fa, quando la civiltà greca sorta dalla commistione di quella minoica con quella meno raffinata e più guerriera portata nella penisola dai popoli scesi dal nord – gli Achei, di origini pare addirittura scandinave -, era al suo apogeo e dominava il Mediterraneo, le città greche trovarono il modo di unirsi (cosa successa assai di rado, prima e dopo di allora) in un esercito comune per conquistare la principale rivale del tempo, la città di Ilio (Troia nella traduzione latina) ed eliminare la concorrenza a sud dello Stretto dei Dardanelli, aprendosi la strada verso il nord.

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Fu a quanto pare la guerra più importante e sanguinosa dell’Antichità. Durata un tempo lunghissimo (l’assedio cantato da Omero si protrae per dieci anni) e dalle conseguenze altrettanto devastanti (i νόστοιnostoi, in greco ritorni a casa – dei conquistatori Achei furono altrettanto perigliosi e finirono per costare a quasi tutti il regno e la stessa vita), la Guerra di Troia diventò il romanzo popolare più ascoltato dell’antica Grecia e di tutte le terre che erano sotto la sua influenza culturale. Roma antica compresa, che ne prese spunto per nobilitare le proprie origini immaginando una discendenza dei Latini dai Troiani in fuga al seguito di Enea, figlio del Re Priamo.

L’Iliade, il racconto di questa storia cantato in versi esametri dattilici o epici, fu il risultato della riunione in un testo comune di tutte le Chansons de geste portate in giro per le dimore dei signori dell’Ellade e per le fiere ed i mercati da vari cantori, gli Aedi, che ad un certo punto furono a loro volta riassemblati in una figura unica, il leggendario Omero.

Altrettanto avvincente era poi il seguito di quella storia, il resoconto di quei nostoi, i ritorni dei sopravvissuti. Agamennone, Menelao (che si era ripreso in casa la moglie fedifraga Elena, causa presunta e nobilitante della sanguinosa guerra di conquista, come se nulla fosse successo), Aiace Oileo (il Telamonio era rimasto esanime sotto le mura di Troia, così come Achille e Patroclo), Diomede, Idomeneo, Filottete, Neottolemo, tutti avevano avuto vicende assai tribolate per far ritorno alle proprie regge. Dieci anni era durata la guerra, quasi altrettanti ce n’erano voluti perché ciascuno degli Eroi superstiti tra quelli partiti sulle fatidiche mille navi potesse rivedere casa.

Il più celebre ed avvincente, letterariamente parlando, di questi ritorni era destinato ad essere quello del più famoso e grato (o ingrato, a seconda dei punti di vista) agli dèi tra questi Eroi vittoriosi. I Romani, da Livio Andronico in poi, l’avrebbero chiamato Ulisse. Ma il suo nome acheo era Odisseus ( Ὀδυσσεύς) e già il suo significato bastava a definirlo come un personaggio simbolico, un archetipo.

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La parola μῦθος in greco antico ha una valenza superiore alla sua traduzione odierna. Il mito è una favola morale, narra una storia ma soprattutto trasmette un messaggio, tramanda un valore. Odisseos già ai tempi in cui si suppone che le sue gesta fossero cantate da Omero, o da chi per lui, era diventato un uomo simbolo della nostra civiltà che oggi chiamiamo occidentale, di discendenti di quei greci e poi di quei romani che codificarono quei racconti ed il loro significato.

Il suo nome significa colui che è odiato, ed il riferimento è al dio del mare Poseidone che non gli perdona lo stratagemma con cui lui, il più astuto degli Eroi, l’uomo di multiforme ingegno, fa sì che le mura di Troia possano essere violate e la città conquistata e distrutta. Città dedicata per l’appunto al dio del mare, che giura vendetta ad Odisseos, il quale potrà alla fine – ma lui solo, avendo perso nel viaggio tutto il suo equipaggio di compagni e soldati – fare ritorno alla natìa isola di Itaca solo per l’intervento di altri dèi di pari rango. Soprattutto quella Athena dea dell’intelletto e della saggezza, della scienza, che inevitabilmente ha preso a ben volere il più intelligente dei mortali.

Il nome Odisseos pare addirittura venire da altra lingua che non l’antico greco, da altri dialetti parlati nell’Asia Minore o addirittura più a nord nelle steppe sconfinate che conducevano alle pianure eurasiatiche da cui il popolo acheo aveva avuto origine. Pare che in quei dialetti indicasse un dio marino, e quindi il nemico giurato di Poseidone sarebbe stato addirittura un suo concorrente, in uno scontro di civiltà e di tradizioni.

L’Odissea quindi altro non sarebbe che uno zibaldone di racconti di mare, i cui primi versi erano stati composti e cantati chissà dove. Molti studiosi sostengono che essendo gli Achei venuti dal nord, al nord doveva essersi combattuta la Grande Guerra, ed al nord erano situate le località ed i terribili, inquietanti personaggi che Odisseos aveva dovuto affrontare prima di rivedere Penelope ed il figlio Telemaco. Alcuni hanno ipotizzato come scenario il Mar Baltico, altri le Isole Britanniche, altri addirittura il Mar dei Caraibi.

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A fondamento di questi voli non necessariamente pindarici ci sarebbe il fatto che le mille navi degli Achei erano assai simili alle lunghe navi dei precursori dei Vichinghi (parenti dunque per parte di comuni antenati), consentendo quindi la navigazione anche su quel Mare Oceano che gli antichi Greci al pari delle altre popolazioni mediterranee come Fenici ed Egizi, conoscevano e non temevano affatto. Le Colonne d’Ercole, in sostanza, al pari di Scilla e Cariddi erano soltanto due scogli dai quali tenersi equidistanti. Sarebbe stato il Cristianesimo a trasformarli nei mostri implacabili che avrebbero tenuto l’umanità rinchiusa nel Mare Nostrum fino a Cristoforo Colombo.

Ma non è tutto. Odisseos ha nell’etimo anche `οδός (odos), che significa viaggio. E anche ουδείς (oudeis), che significa nessuno. Se ciò è fondato, la risposta data dall’Eroe al ciclope Polifemo contiene soltanto una buona dose di astuzia, ma nessuna falsità. Quanto alla traduzione latina in Ulisse, pare che secondo una certa accezione del nome esso equivalesse all’aggettivo zoppo (il re di Itaca era rimasto ferito da giovane alla coscia durante una battuta di caccia al cinghiale). Si può solo constatare a tale proposito che per quanto gli antichi Romani – storia alla mano – surclassassero addirittura i prodi antichi Greci in quanto a virtù militari, i loro nomi ed i loro vocaboli avevano una assonanza marziale assai ridotta rispetto a quella ellenica. La lingua dell’Epica è il Greco, rispetto ad Iliade ed Odissea l’Eneide risulta infatti penalizzata dall’essere scritta nel più morbido latino.

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Odisseos, chiunque fosse, comunque si chiamasse realmente e di dovunque venisse, è l’Eroe che ha fatto molto di più che conquistare Troia rinchiudendo un commando nella pancia del grande cavallo di legno lasciato come falsa offerta votiva sulla spiaggia dove era corso il sangue di Achei e Troiani per dieci anni, sfidando la preveggenza di Cassandra e di Laocoonte che avevano sentito il suo inganno. Molto di più che sconfiggere poi terrori e magie lungo tutte le coste di quell’enorme lago che era allora il Mediterraneo (o del Baltico o di chissà quale altro Mare che allora sembrava coincidere con il mondo intero), spinto soltanto dal proprio ingegno, dal proprio coraggio e dalla voglia incrollabile di rivedere casa e famiglia.

No, Odisseos è soprattutto colui che ha fondato la nostra civiltà. La civiltà dell’uomo occidentale, che gli ha tramandato valori in grado di consentirgli un destino del tutto diverso rispetto a quello di altri popoli. Ulisse è l’uomo che osa sfidare gli dei, il soprannaturale, l’incomprensibile (o almeno tale per chi è dotato di intelligenza inferiore alla sua, o paralizzato da un misticismo sconfinante nella oscura superstizione). E’ un uomo che non si sente inferiore agli dei, perché ne possiede le stesse qualità, lo stesso spirito divino. Athena, la più saggia e potente – a ben guardare – delle dèe, gli ha fatto dono dei suoi stessi poteri. Da quel momento non c’è più Colonna d’Ercole che possa trattenere Ulisse dal raggiungimento dei suoi scopi e delle sue destinazioni. Non c’è più niente che possa trattenere l’umanità che da Ulisse discende (ed a cui egli ha tramandato il suo ingegno multiforme) dal perseguimento del progresso e delle conquiste della mente, del carattere, dell’intelligenza.

Ulisse non è mai succube del divino, ne è parte. Non è mai ripiegato su se stesso, meditativo, passivo e attendista come i grandi archetipi orientali, ma è proteso verso l’esterno, l’ignoto, la conquista. Come Colombo quasi duemilacinquecento anni dopo di lui, sa che al di là di Gibilterra c’è solo altro mare. Mare possente, che richiede maestria nella navigazione. Tutto sta soltanto ad averne il coraggio. Come Lawrence d’Arabia tremila anni dopo, ai suoi compagni atterriti dal viaggio e dalle sue insidie e a tutti coloro che vogliono stare a sentirlo nei secoli dei secoli, ripete la frase cardine della nostra evoluzione di occidentali: «Io lo farò, e basta. Perché è scritto qui», dice, indicando la propria testa. L’unica artefice del proprio destino.

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L’Odissea è il nostro romanzo, il nostro testo filosofico più importante. Siamo quello che siamo perché Odisseos fece quello che fece, e perché gli Aedi dell’antica Grecia seppero raccontarlo nel modo giusto, più affascinante, più convincente ed avvincente. Non c’è dio che possa maledirci e fermare il nostro progresso, il ritorno alla nostra casa, quelle stelle da cui forse tutti discendiamo, se eravamo capaci già ai tempi di Ulisse di costruire le stesse piramidi a migliaia di chilometri di distanza lungo l’Equatore.

E’ una storia che dopo Omero pochi hanno saputo raccontare trasponendola in lingue diverse, o in linguaggi diversi. Come quello televisivo, per esempio.

Nel 1968, La RAI che all’epoca produceva capolavori di sceneggiati uno dietro l’altro, raggiunse forse il suo apogeo con l’Odissea di Franco Rossi, Mario Schivazappa e Mario Bava. Era una coproduzione che si avvaleva di attori internazionali come quel Bekim Femhu, jugoslavo di Sarajevo, che da allora è Ulisse per tutti noi ragazzi degli anni sessanta, senza se e senza ma. E poi c’è lei,  Ειρήνη Λελέκου Παπά, Irene Papas. Dite un po’ se non è vero che perfino Omero avrebbe immaginato la sua Penelope con le sembianze dell’attrice di Corinto, dalle antiche fattezze e movenze di una ormai perduta civiltà mediterranea.

E quel gioiello, la voce che viene da lontano, dalla notte dei tempi e delle culture. La voce di Giuseppe Ungaretti, che gli dèi presto avrebbero reclamato a sé e che ci regalò i suoi ultimi versi parlando all’inizio di ogni puntata in una lingua e con un tono di voce da antico Aedo che dovevano essere per forza quelli di Omero.

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Poi c’è Troy, di Wolfgang Petersen, produzione Warner Bros., anno 2004 d.C. Prima che qualche purista salti sulla sedia e butti via l’articolo, ci preme fare una precisazione. Dai tempi di Ulisse, la nostra civiltà ha perso molto dell’imprinting avuto da quella greco-romana. Abbiamo traduttori sempre più raffinati dal greco e dal latino, ma sempre meno persone in grado di trovare nel testo lo spirito di Ulisse, Achille, Enea, Ettore e di ciascuno di quei temerari Achei che solcavano mari spaventosi a bordo di un guscio di noce appena un po’ più allungato.

Gli Americani, figli di una nazione che non era nata giovane ma ha dovuto ridiventarlo subito per questione di sopravvivenza, hanno riportato un po’ indietro l’orologio del tempo fino a quell’ora della nostra evoluzione in cui eravamo molto più coraggiosi e nello stesso tempo più pensierosi rispetto a quello che facciamo. Eccoli dunque assomigliare più loro, con la loro semplicità culturale che qualche letterato (o illetterato) europeo liquida sprezzantemente come rozzezza, a quei nostri progenitori Achei di tanti che dalle nostre parti conoscono Iliade ed Odissea soltanto perché in prima media a scuola si faceva Epica.

I Mirmidoni di Achille interpretato da Brad Pitt sembrano una compagnia di Marines U.S.A. ma a ben vedere, che altro erano? E Ulisse, dal sorriso sfrontato e beffardo di Sean Bean così simile da un lato al Boromir del Signore degli Anelli e dall’altro ad uno dei tanti 007 che con astuzia e coraggio combattono i nemici dell’Umanità, non è un po’ anche lui come ce lo immaginavamo a scuola (chi stava attento alle lezioni) al momento di entrare nella pancia di quel cavallo?

E di dare il via ad una storia che da tremila anni è la nostra, anche se facciamo di tutto per dimenticarcene, e per soccombere a culture che renderebbero i prossimi tremila indegni di essere vissuti. Tanto da far preferire a confronto che i 300 spartani di Leonida, lasciando passare i Persiani alle Termopili non avessero dato il tempo ad altri Eroi della Grecia di far sì che per i secoli a venire noi potessimo essere quello che siamo.

I figli di Ulisse, l’uomo di multiforme ingegno. Uomini liberi.

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«L’uomo è ossessionato dalla dimensione dell’eternità e per questo si chiede: “Le mie azioni riecheggieranno nei secoli a venire?” Gli altri, in gran parte, sentono pronunciare i nostri nomi quando siamo già morti da tempo e si chiedono chi siamo stati, con quanto valore ci siamo battuti, con quanto ardore abbiamo amato.» (Incipit di Troy, voce narrante di Ulisse)

 

 

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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