Sono nato a Teaneck nel New Jersey il primo febbraio 1987. Non è l’inizio di John Rambo, il film interpretato dal mio compaesano Sylvester. E’ l’inizio della mia vita, che poteva essere quella di uno dei calciatori più leggendari della storia, oltre che l’ennesima storia – affascinante – di immigrati italiani in America che tornano coronati dal successo. Finora non è andata così, dolore e fatica hanno sempre affossato il sogno. Ma come dice un altro personaggio di Sylvester, è finita quando è finita, quando suona la campana dell’ultimo round.
Mio padre era di Fraine, mia madre di Acquaviva d’Isernia. Un abruzzese e una molisana, nati quando l’Abruzzo ed il Molise erano una sola regione. Nati in un’epoca in cui molti dovevano andare in America per non morire di fame, per sopravvivere. Per fortuna almeno, i miei non dovettero scendere in miniera. Erano insegnanti di lingue alla Clifton High School, italiano e spagnolo per i ragazzi yankee del liceo locale. Uno dei primi negli anni sessanta ad abolire la segregazione razziale e a consentire le classi miste di bianchi e neri.
A Clifton un ragazzino italoamericano poteva crescere nelle migliori condizioni, e soprattutto giocando a calcio, o come dicono da quelle parti a soccer. Laggiù chiamano football un gioco che non ha niente a che vedere con il nostro, nato in Inghilterra da un’idea fiorentina del XVI secolo. Firenze….. Era inevitabile che prima o poi il destino mi portasse in riva all’Arno. Nella città che una volta attraeva gli artisti del pennello e dello scalpello e che fino a poco tempo fa attraeva anche quelli del pallone.
A 12 anni ero tornato al paese d’origine dei miei avi. A Parma, dove alla fine del ventesimo secolo aveva sede una delle famose Sette Sorelle, le squadre che si giocavano il campionato italiano e non contente proseguivano la loro sfida anche in Europa. A quell’epoca inglesi, tedeschi e spagnoli stavano a guardare noi che vincevamo a destra e a manca. Ma dalle nostre parti c’erano così tanti campioni che un ragazzino di belle speranze come me doveva andare fuori per emergere. Mi prese il Manchester United, dove a 17 anni debuttai in prima squadra. Cinque partite ed un gol con i Red Devils, poi di nuovo a Parma in prestito.
A 20 anni ero uno dei più forti centravanti italiani, 9 gol in 19 partite quell’anno. Tra le mie vittime anche la Fiorentina ovviamente, una doppietta al Tardini. A fine anno ero quasi un top player, uno di quelli che al calciomercato fanno ballare grosse cifre, di quelle che l’Italia cominciava a non potersi permettere più. Al Manchester ero chiuso da gente come Cristiano Ronaldo, che già lottava con Messi per il Pallone d’Oro. Fui ceduto al Villareal, era il 2007 e fino al 2011 furono anni formidabili.
Soltanto Marcello Lippi, tornato selezionatore della Nazionale dopo il titolo vinto a Berlino e la parentesi Donadoni, non si accorse di me. Per difendere il titolo in Sudafrica preferì affidarsi ai suoi veterani. Il mio mondiale del 2010 finì al Sestriere, nel pre-ritiro al termine del quale fui escluso dalla lista dei 22. Un film che ero destinato a rivedere.
La Nazionale tornò a casa eliminata al primo turno. A me invece il destino aveva teso una trappola ben peggiore, in uno dei luoghi deputati a celebrare la gloria del calcio, uno stadio generalmente associato alla gioia ed al trionfo nell’immaginario sportivo italiano. Il 26 ottobre 2011 al Santiago Bernabeu con la mia squadra sotto di tre gol contro il Real il ginocchio mi tradì la prima volta. Mi operarono subito e mi dissero che in sei mesi sarei tornato a giocare, in tempo per gli Europei di Polonia – Ucraina. Io ce la misi tutta, ma il 13 aprile 2012 finì sia la mia carriera nella Liga spagnola che il sogno europeo. Nuovo crac al ginocchio e addio Prandelli.
All’Italia nella finale contro la Spagna avrei fatto un gran comodo. Per non parlare del Villareal, che retrocesse in Segunda Division al termine di quel campionato. Quell’estate due miei compagni partirono per Firenze, Borja Valero Iglesias e Gonzalo Rodriguez. La Fiorentina stava cercando di rilanciarsi dopo due stagioni di sofferenza, mettendo nelle mani del giovane tecnico Vincenzo Montella una squadra di talenti che per un motivo o per l’altro non avevano più futuro nelle squadre di provenienza.
Ai primi di gennaio 2013, toccò anche a me ritrovare un futuro e proprio a Firenze. La Fiorentina mi prese per 10 milioni di euro più 6 di bonus, facendomi firmare un contratto fino al 30 giugno 2017 con clausola rescissoria fissata a 35 milioni di euro fino al 2015 e a 30 per gli ultimi 2 anni. Niente male. A quel tempo la proprietà della squadra viola spendeva. Io ero una grossa scommessa dopo due infortuni, ma la mano di Della Valle mentre firmava l’assegno quella volta non tremò.
Neanche le mie gambe tremavano quando scesi in campo a Pescara per la prima volta in maglia viola. Era l’ultima di campionato, il 19 maggio 2013. La mia maglia era la numero 49, l’anno di nascita di mio padre, scomparso da poco. Presi il posto di Cuadrado. Quel giorno non segnai, il primo gol viola sarebbe arrivato alla prima del campionato successivo e fu anche il primo gol stagionale della Fiorentina, vittoria contro il Catania per 2-1.
A giocare con noi era arrivato un altro pezzo da novanta, il centravanti della Nazionale tedesca Mario Gomez. Quell’anno si giocava per vincere. Si giocava, tanto per cambiare, contro il destino. Alla terza giornata si fece male Mario. Io ressi fino alla diciottesima. Un solo giorno di gloria, ma immortale: 20 ottobre 2013, tre dei quattro gol con cui mettemmo sotto la Juventus li segnai io. Poi, due giorni prima di Natale a Sassuolo avevo segnato il gol della vittoria, senza sapere che sarebbe stato l’ ultimo di quell’anno. Un giorno prima della Befana Leandro Rinaudo del Livorno mi ruppe il ginocchio per la terza volta. Il sogno finì quel giorno lì, e lo sapevo mentre uscivo dal campo in lacrime.
Feci a tempo a rientrare nella partita di ritorno col Sassuolo, dopo 4 mesi, e nella finale di Coppa Italia all’Olimpico contro il Napoli. Per capire che era una annata maledetta non c’era bisogno di Jenny ‘a carogna. Feci a tempo infatti a illudermi che Prandelli mi portasse ai Mondiali in Brasile. Ma come quattro anni prima, ero il ventitreesimo in una lista di 22. E mi fu detto soltanto all’ultimo momento.
La mia non è una storia americana a lieto fine. Roberto Baggio e Paolo Rossi ce l’avevano fatta a superare avversità come le mie e ad entrare nella storia del calcio italiano. Io ci sono arrivato soltanto vicino. Enzo Bearzot mi soprannominò Pepito perché secondo lui avevo i numeri per ripetere le gesta di Pablito, il centravanti mundial di Argentina 78 e Spagna 82. Brasile 2014 me lo sono gustato – si fa per dire – dal divano di casa, così come buona parte del campionato successivo della Fiorentina. Ho visto più spesso la Steadman Clinic di Vail, Colorado, che lo Stadio Artemio Franchi di Firenze.
Il nuovo tecnico viola, Paulo Sousa arrivato al posto di Montella, non credeva al mio ritorno nei miei panni più di quanto avesse fatto Prandelli. Ho giocato poco e segnato un solo gol, ai dopolavoristi del Belenenses. A Firenze ormai è troppo tardi per lasciare il segno come i grandi artisti del passato. Anche in Nazionale il tempo stringe, EuroFrance 2016 sarà l’ultima occasione della mia carriera per onorare la maglia azzurra, il sogno americano di quel ragazzino italiano che tirava i primi calci del pallone a Teaneck, New Jersey.
Ma io ci credo ancora. Sono salito alla ribalta in Spagna, ed in Spagna ci risalirò di nuovo. Levante, vuol dire che si rialza. E’ finita soltanto quando è finita, quando suona la campana dell’ultimo round. Sono nato per combattere. Io sono Giuseppe Rossi. E un giorno ritornerò.
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