I veneziani lo chiamavano Zuan Chabotto. Gli inglesi lo avrebbero chiamato John Cabot. Giovanni Caboto era uno degli italiani a cui la penisola nella quale era nato – che cominciava alla fine del quindicesimo secolo a ritrovarsi ai margini della politica e della storia europea e mondiale – e lo stesso mare Mediterraneo su cui essa aveva fino a quel momento spadroneggiato cominciavano a stare stretti.
Non si sa con certezza dove fosse nato, se nella repubblica marinara di Gaeta o in quella di Genova. Si sa che ancor giovane si trasferì con la famiglia nella più celebre delle repubbliche marinare, quella di Venezia. I Caboto erano una famiglia importante, i cui membri avevano fatto un po’ di tutto: ambasciatori, funzionari, mercanti. Giovanni si sentiva soprattutto un marinaio, ed era sul mare che cercava il suo destino.
Erano gli anni in cui il baricentro di quel mare si stava spostando inesorabilmente ad ovest. Dal Mediterraneo su cui la Serenissima aveva signoreggiato fino a quel momento al grande mare Oceano verso cui i navigatori più ardimentosi si sentivano sempre più attratti. E fino al quale Venezia percepiva di non poter arrivare ad estendere il proprio interesse ed il proprio predominio, stretta com’era ormai tra Spagna e Impero Ottomano, che la relegavano agli angusti confini del Mare Nostrum.
Le Colonne d’Ercole avevano cessato di intimorire l’uomo del Rinascimento a differenza di quanto avevano fatto con l’uomo del Medioevo. I marinai più ardimentosi, come detto, guardavano ad ovest e vedevano la stessa acqua che scorreva ad est di Gibilterra. Non avevano mai creduto alle sciocchezze professate dalla Chiesa di Roma: che il mondo fosse quello descritto da Aristotele, la terra fosse quella disegnata come piatta da Tolomeo e che il destino dei blasfemi che andavano troppo a occidente fosse quello assegnato ad Ulisse da Dante nel XXVI° canto dell’Inferno.
I marinai più ardimentosi sapevano che il mare ricopriva un pianeta rotondo navigabile ad ovest, così come Marco Polo l’aveva scoperto percorribile via terra ad est. Sapevano che con un po’ di coraggio e di fortuna si potevano raggiungere verso ovest le terre del Gran Khan, Il Katai, Cipango, e tutte le loro favolose ricchezze. Quelle terre verso cui l’Impero Ottomano aveva precluso la via di terra ad est, e le cui ricchezze tra l’altro adesso servivano anche per mantenere l’esercito che a quell’Impero doveva sbarrare la strada, per salvare la Cristianità.
I marinai più ardimentosi erano italiani e portoghesi. Ma questi ultimi avevano una posizione di favore rispetto all’epoca che stava per cominciare. Il Portogallo era già al di là delle Colonne d’Ercole, e da quella condizione gografico-esistenziale partiva in prima fila per la scoperta e la colonizzazione delle nuove terre africane, asiatiche e di quelle che si supponevano essere le Indie Occidentali descritte dai Polo. Enrico il Navigatore aveva brillantemente ma correttamente assegnato al suo paese il destino di piccola grande potenza coloniale, capace addirittura di surclassare sui sette mari la più potente e spesso ostile vicina Spagna, costringendola a patti.
Gli italiani di fine quindicesimo secolo invece non avevano patria. Non l’avevano più, o forse non l’avevano mai avuta. Erano pronti per essere messi all’angolo, assieme al mare Mediterraneo che era stato la loro fortuna e la ragione della loro potenza. I marinai italiani più ardimentosi giravano le corti europee, tentando di convincere ottusi o distratti sovrani ad affittare loro qualche caravella per andare a scoprire cosa c’era ad ovest.
Il più ardimentoso, testardo, consapevole di tutti era stato quel genovese, Cristoforo Colombo, che aveva passato la vita a tracciare rotte fantastiche, sapendo in cuor suo che poteva farne rotte navigabili con profitto per chi ci avesse creduto. Che aveva speso anni frustranti a farsi dire di no e trattare da visionario dai re di Francia, Inghilterra, Spagna e Portogallo, nonché dai Dogi delle repubbliche marinare della sua terra d’origine. Ancora quell’italiano, dovevano pensare vedendoselo comparire ogni volta davanti con le sue carte nautiche ed i suoi appunti, ad interrompere assai più concreti consigli reali in cui si organizzava la prossima campagna d’Italia o la prossima Crociata contro i Turchi.
Finché nel 1492 una Spagna che aveva appena terminato la lunga plurisecolare reconquista si ritrovò improvvisamente con nulla da fare, e qualche caravella da poter spendere assegnandola a quel Cristobal Colon, quel visionario italiano che, a starlo a sentire, prometteva a buon mercato scoperte e ricchezze tali da ingolosire qualunque monarca. La regina Isabella di Castiglia convinse il pur rude marito Ferdinando di Aragona a scommettere sull’italiano, dandogli la patente reale di navigazione e la carica di Ammiraglio del Mare Oceano. Nell’indifferenza delle altre potenze europee, che pure qualche mese dopo erano destinate a mangiarsi le mani pensando all’occasione persa.
La bandiera piantata da Colombo a San Salvador nelle Indie di Marco Polo, al termine della rotta verso l’ignoto su cui nessuno aveva voluto scommettere, era quella infatti dei sovrani spagnoli. Due anni dopo, a Tordesillas, il Papa divise il mappamondo in due parti, mandando definitivamente in soffitta Tolomeo e la sua terra piatta e consacrando Spagna e Portogallo come le nuove potenze imperiali e marinare del tempo a venire.
La storia moderna prese da quel momento un ritmo frenetico. Tra gli italiani che sulla scia di Colombo (ma con più consapevolezza di lui, essendo da subito per nulla convinti che il genovese fosse sbarcato in una delle isole del Mar del Giappone, ma che avesse piuttosto scoperto una terra nuova in un continente nuovo) si proponevano per nuove analoghe imprese, c’erano personaggi destinati a diventare altrettanto leggendari. Come Amerigo Vespucci, il primo a dire a voce alta che il collega aveva scoperto una terra nuova e a meritarsi quindi di darle il nome. O Giovanni da Verrazzano che prese a costeggiare quella terra che si rivelava sempre più enorme nelle dimensioni dirigendosi verso sud. O Giovanni Caboto che fece altrettanto, ma verso nord, seguendo una rotta che soltanto i temerari Vichinghi avevano avuto il coraggio di percorrere, sfidando i ghiacci eterni e arrivando probabilmente in America con quattro secoli di anticipo sulla Niña, la Pinta e la Santa Maria.
Anche Caboto era convinto di essere alle prese con l’esplorazione di un nuovo continente, altro che Katai. E quando andò ad offrire i suoi servigi ad Enrico VII d’Inghilterra trovò un re che si stava ancora rammaricando per la sciocchezza commessa nel non prestare fede a Colombo. L’Inghilterra uscita dal Medioevo attraverso al Guerra dei Cent’anni e quella delle Due Rose si stava rendendo conto di avere un destino sul mare, e non più sulla terra come ai tempi di Riccardo Cuor di Leone.
Enrico VII dette all’italiano, a quel John Cabot, un solo vascello, il Matthew. Con quello, il 20 maggio 1497 Giovanni Caboto ed il figlio Sebastiano salparono da Bristol diretti verso la rotta vichinga. Un mese dopo sbarcavano in Nuova Scozia, e poco tempo dopo ancora sulla dirimpettaia isola di Terranova, New Found Land. Battezzando e rivendicando quelle terre per la corona inglese e dando quindi inizio ufficiale alla colonizzazione del Nordamerica.
Caboto era convinto dell’esistenza del leggendario Passaggio a Nord Ovest, che metteva in comunicazione l’Oceano Atlantico con quello Pacifico. Mentre gli altri navigatori scendevano a sud, fino a Capo Horn, finendo per circumnavigare quello che a quel punto non c’era più dubbio fosse un nuovo, immenso continente, i Caboto tentarono la via dei ghiacci, a nord. Un anno dopo la prima spedizione, eccoli di nuovo in mare, a costeggiare la Groenlandia ed il Labrador.
Da quel secondo viaggio sarebbe tornato soltanto Sebastiano, mentre sulla sorte del padre non è mai stata fatta chiarezza. Forse il suo destino non fu diverso da quelli di Ferdinando Magellano o James Cook, una volta venuto a contatto con gli indigeni. L’originario piano di aprirsi la strada tra i ghiacci del resto era stato abbandonato presto, pare per l’ammutinamento dell’equipaggio che mal sopportava il freddo glaciale al largo delle coste canadesi.
Il Passaggio a Nord Ovest rimase un mito per ben cinque dei secoli successivi. Era un 20 maggio anche quello del 1845 in cui le navi HMS Erebor e Terror dell’esploratore inglese John Franklin – fondatore tra l’altro della Royal Geographc Society – salparono tentando nuovamente la rotta di Caboto. Una spedizione, una delle tante peraltro, destinata a risolversi in un completo disastro e a costare la vita allo stesso Franklin.
Finché nel 1906 l’esploratore norvegese Roald Amundsen riuscì ad aprirsi la via che Caboto aveva immaginato, dalla baia di Baffin allo stretto di Bering, arrivando in Alaska dopo un viaggio di quasi due anni su un peschereccio per la pesca delle aringhe riconvertito in nave rompighiaccio. La prima delle sue grandi imprese, ma anche la più inutile.
Il mitico passaggio esisteva, ma la rotta era assolutamente impraticabile date le estreme condizioni di navigazione. Come quello di Colombo, il sogno di Caboto era destinato tuttavia ad aprire la strada ad altre rotte e ad altri viaggi, che avrebbero fatto dell’America la nuova, ultima frontiera dell’Europa. Un Europa in cui ormai coraggiosi marinai italiani compivano i loro viaggi verso l’ignoto al soldo di altri paesi. Il loro ormai era ridotto a nave senza nocchiero in gran tempesta, non donna di province, come l’aveva immaginato il Navigatore della Fantasia, Dante Alighieri.
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