Nebbie dense, che avvolgono come un sudario boscaglie e terre ripiombate in una preistoria barbarica. Uomini che si aggirano con l’unico conforto delle proprie armi e della propria capacità di usarle, in lande che non conoscono più legge né civiltà. Di qua e di là del Vallo di Adriano, pochi anni dopo la partenza delle Aquile romane nessuno parla più la lingua dell’Impero. L’idioma dei celti è sopraffatto da quello dei sassoni e dei danesi. Nessuno più in Britannia confida nel Diritto Romano e nelle Legioni, ma solo nella Spada. E nella mano di un re che sappia impugnarla, guidando il suo popolo ad una vittoria senza la quale non ci sarà sopravvivenza.
L’ultima rivisitazione cinematografica in ordine di tempo del mito della Spada nella Roccia è stata King Arthur il potere della spada. Co-prodotto, co-scritto e diretto da Guy Ritchie, regista, sceneggiatore e produttore britannico finora più che altro noto per essere stato il marito di Madonna. Ritchie è già stato autore della rivisitazione controversa di un altro dei miti fondanti della nazione britannica: Sherlock Holmes. Dopo l’investigatore di Baker Street rappresentato come un eroe da videogame, tocca al mitico re di Camelot, Artu, essere ricelebrato e nello stesso tempo trasformato in qualcosa d’altro.
La saga più celebre del medioevo britannico e bretone viene trasformata in una specie di Gang of Londinium, dove si narra l’ascesa al potere di un teppista di strada che un bel giorno estrae la spada dalla roccia dove l’aveva conficcata un padre della cui esistenza e delle cui motivazioni lui è all’oscuro.
Film d’azione come tanti, ben confezionato, assolutamente distante da una verità storica che gli studiosi si sforzano di ricostruire da secoli. Da quando la Morte d’Arthur di Sir Thomas Malory consegnò all’epica immortale della sua terra e del mondo intero la figura romantica del predestinato possessore della spada magica Excalibur.
Non sembravano molti insomma i motivi, se non la classica ora e mezza di svago, per andare a vedere questo Potere della Spada, ma sono tanti, tantissimi quelli per rievocare le suggestioni – ed i tentativi più o meno riusciti di rappresentarle – di questa storia-leggenda che è all’origine non soltanto della consapevolezza di sé della Gran Bretagna odierna, ma di tutta la civiltà occidentale.
Ci hanno provato in diversi a rendere sullo schermo la chanson de geste di re Artu, e nessuno tutto sommato ha saputo far meglio di Walt Disney, che con il suo Semola è andato più vicino di ogni altro a rendere giustizia all’eroe romantico presente nel nostro immaginario. Vent’anni dopo uno dei più riusciti cartoons disneyani, fu la volta di John Boorman con il suo Excalibur, che aveva il merito di aver azzeccato tutti gli elementi chiave in grado di sollecitare quel nostro immaginario, dal taglio mitologico-favolistico della narrazione alla predilezione per ed alla capacità di resa delle scene di battaglia, alla colonna sonora felicemente ispirata a Wagner e ai Carmina Burana di Orff.
Assai meno riuscita, una quindicina di anni dopo, la trasposizione cinematografica del mito da parte di Jerry Zucker, praticamente poco più di un pretesto per vedere all’opera mostri sacri come Sean Connery, Richard Gere e Julia Ormond nei panni di cavalieri e dame. Il Primo cavaliere era un film che ai tempi di Tony Curtis e di Robert Taylor avrebbe spopolato, ma che arrivava con quarant’anni di ritardo.
Sembravano avere i tempi giusti invece le ultime rivisitazioni della leggenda arturiana arrivate al principio del nuovo secolo. King Arthur di Antoine Fuqua con Clive Owen e Kiera Knightley aveva un solido fondamento basato sulle ultime ricerche storiografiche, che avevano individuato nei Cavalieri della Tavola Rotonda nient’altro che una legione straniera distaccata dai Romani in Britannia per tenere a bada il confine nord-ovest dell’Impero, tra il Vallo di Adriano e la Costa Sassone. Re Artu non era altro che l’ultimo comandante della legione richiamata a Roma, che sceglie di restare nell’isola e fondare lì una nuova patria.
Ancora più apparente fondamento aveva L’ultima Legione, di Doug Leffer, libero adattamento dell’opera di Valerio Massimo Manfredi. Lì il riferimento era esplicito. Il vessillo del drago che era il simbolo della IX Legio Hispanica, la Legione dell’Aquila posta a guardia del Vallo, era passato nelle mani di un misterioso rampollo reale, destinato a crescere e passare alla storia come re Artu – il Pendragon – e che Manfredi aveva immaginato essere nientemeno che Romolo Augustolo, l’ultimo imperatore d’Occidente in fuga dopo la deposizione da parte di Odoacre. L’ultima aquila imperiale non sarebbe dunque stata rispedita dagli Eruli vittoriosi a Costantinopoli, ma avrebbe trovato rifugio tra le brume britanniche e scozzesi.
Analoga fioritura di riadattamenti e reinterpretazioni in campo letterario. Oltre al nostro Manfredi, autori da bestselles come Marion Zimmer Bradley e Bernard Cornwellsi sono cimentati con successo con il potere ed il mito della spada Excalibur, per finire al canadese di origine scozzese Jack Whyte, che ne ha dato l’interpretazione più suggestiva, oltre che forse più veritiera. La spada che canta, come era soprannominata, era stata forgiata da fabbri romani utilizzando un minerale venuto dal cielo, un meteorite. Da qui il nome, ex calibur, in latino dall’acciaio, o dai fabbri (forgiata).
Verità e mito, arte e storia. Il comune denominatore (considerato che i miti hanno sempre un fondamento storico) di tutte le trasposizioni e rappresentazioni teatrali e letterarie risiede nel ritenere che King Arthur, il primo mitico re della Britannia celtica post-romana, altro non fosse che Artorius, l’ultimo comandante di un esercito che era stato romano e che da romano-celtico intendeva opporsi alla conquista sassone, alla trasformazione della provincia più estrema di un impero che non esisteva più nella Terra degli Angli, England, per mano dei conquistatori venuti dai paesi Bassi o dalla Germania, o nel Danegeld, per mano dei vichinghi razziatori sciamati dalla Danimarca e dalla Norvegia. Senza contare quei Pitti e Scoti della Caledonia che nemmeno Cesare ed i suoi successori erano mai riusciti ad addomesticare.
Artorius era forse figlio di quell’Uther Pendragon che discendeva dalla stirpe del drago, che attraverso un cerimoniale rituale – probabilmente una simbolica estrazione di una spada dalla roccia – veniva periodicamente investito della carica di Riotamus (re) di Britannia. Un po’ come avrebbe funzionato per gli scozzesi con la Pietra di Scone. Storici e artisti collocano la sua esistenza, compresa tra una nascita ed una morte in egual modo ammantate di leggenda e magia, più o meno a ridosso della fine del mondo romano, quel V secolo in cui i Barbari ruppero più o meno dovunque i confini dell’Impero, trovando per l’appunto solo in Britannia una valida opposizione grazie al perdurare delle strutture militari imperiali.
La stirpe del drago, tra quelle dei vari signori della guerra che come il Vortigern del film di Ritchie si contesero il potere lasciato a terra dai proconsoli romani, fu quella che vantava i titoli maggiori, i quattro quarti di nobiltà e benvolere divino, per far sì che i suoi rampolli succedessero agli imperatori di Roma come signori della Britannia.
Al di là degli abbellimenti artistico-mitologici, Artu nacque, visse, combatté e morì in quella parte dell’odierna Gran Bretagna che corrisponde al Galles, alla Cornovaglia, alle Midlands. Londra era persa, caduta in mano sassone assieme all’East Anglia. A nord, i primi razziatori vichinghi facevano capolino tormentando il Northumberland.
Il sogno celtico di indipendenza e sopravvivenza al medioevo barbarico incipiente durò, a quanto pare, quanto la vita di Artu. Al termine della quale non solo Excalibur sparì nelle profondità del lago da cui era emersa per essere consegnata ai Pendragon, ma i Celti dovettero ritirarsi nelle montagne del Galles, territorio inaccessibile quanto le Highlands scozzesi che l’Inghilterra ormai diventata sassone avrebbe stentato per secoli a sottomettere, fino ai Plantageneti del tredicesimo secolo e ad un’altra epopea, quella di Braveheart.
Di Artu rimase solo l’idea che l’isola poteva sopravvivere soltanto mantenendosi unificata sotto una guida forte. L’impresa di Artu fu condotta a termine dal sassone Alfredo il Grande e dai suoi successori, e poi ereditata dai conquistatori normanni dopo la fine dell’egemonia danese.
L’ultimo re di Britannia, il primo re d’Inghilterra sarebbe sepolto secondo la tradizione nell’isola fatata di Avalon, l’odierna Glastonbury (all’epoca una specie di Mont Saint Michel, separata dall’acqua dalla terraferma). Sarebbe anche il luogo dove Giuseppe d’Arimatea avrebbe portato il Santo Graal contenente il sangue di Cristo, e dove avrebbe avuto il suo fondamento originario la Chiesa cristiana di Britannia. Non è un caso che il ciclo arturiano e la leggenda del Graal sono miti strettamente legati, a partire dal Medioevo. La Tavola Rotonda a cui sedevano il re ed i suoi cavalieri (con il posto d’onore sempre lasciato a disposizione di Cristo in attesa del suo ritorno) sarebbe invece stata posta a Camelot, la favolosa reggia di Artu. Gli storici ancora discutono circa l’odierna collocazione di Camulod, da Camulodunum (Colchester) a Tintagel di Cornovaglia, a Viroconium (Shrewsbury), a Caerleon nel Galles.
Ma in fondo, sono tutti dettagli senza importanza. La leggenda aleggia ovunque nel nostro mondo occidentale, e continua, e continuerà fino alla notte dei tempi.
«Finché la spada un giorno risorgerà di nuovo».
(Excalibur, 1981, John Boorman)
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