Si ferma a 70 anni e 214 giorni la durata del regno di Sua Maestà Elisabetta II di Gran Bretagna, che il 21 aprile scorso ne aveva festeggiati personalmente 96. Da sette anni ormai la sovrana del Regno Unito aveva superato la precedente detentrice del record di longevità reale nel suo paese, la regina Vittoria. A questo punto inseguiva il record assoluto a livello mondiale, con buona pace del suo erede designato Carlo principe di Galles (che nel frattempo di anni ne ha compiuti 74). E i numeri dicevano tra l’altro che quel record non era lontanissimo, e la buona salute di cui godeva fino a poco tempo fa Sua Maestà lo rendevano nei pronostici non impossibile da conseguire.
Ma vediamo, chi sono stati i più longevi monarchi di sempre? Quali sono le posizioni che Elisabetta Windsor, la seconda regina inglese del suo nome dopo la grande figlia di re Enrico VIII che fece per prima del suo paese una grande potenza mondiale, ha dovuto scalare per veder passare alla storia il proprio regno come il più lungo di ogni luogo e tempo?
Al comando della speciale classifica – e ormai sappiamo che ci resterà – c’é il re per antonomasia, colui che consegnò alla storia la celebre frase «lo Stato sono io», e che incarnò la regalità ed il potere assoluto del monarca per grazia di Dio come nessun altro. Luigi XIV, che sarebbe passato alla storia con l’appellativo altrettanto assoluto di Re Sole, ascese al trono di Francia il 14 maggio 1643.
Nel momento in cui la monarchia sembrava destinata a soccombere alla volontà della nazione con quasi un secolo e mezzo di anticipo sulla Grande Rivoluzione del 1789. Il figlio del debole re Luigi XIII e di Anna d’Austria (la regina della collana smarrita immortalata da Alexandre Dumas nei Tre Moschettieri) ebbe l’infanzia traumatizzata dai tumulti della Fronda, la rivolta che la nobiltà aizzò a Parigi e in tutta la Francia servendosi di un popolo affamato dalla Guerra dei Trent’Anni per destabilizzare il potere monarchico e dei maestri di palazzo dell’epoca, i cardinali Richelieu e Mazarino.
Sopravvissuto a tali difficili esordi, il re bambino (aveva cinque anni quando gli fu posta la corona sul capo) divenne adulto e poi divenne il sole che illuminava l’Europa, quando non la metteva a ferro e fuoco. I settantadue anni e 110 giorni del suo regno li trascorse senza sosta a consolidare il proprio potere in patria (esautorando quei nobili che l’avevano quasi soffocato nella culla, fino a trasformarli in cortigiani che oziavano presso la sua nuova corte di Versailles, dove si era trasferito per sfuggire alla turbolenta Parigi) ed all’estero.
Le sue guerre di confine con i principati tedeschi e la lunga guerra per la sottomissione dei Paesi Bassi ereditata dalla Spagna in declino finirono senza esito, e finirono di dissanguare l’erario ed il popolo francese creando i presupposti per ciò che sarebbe successo alla fine del secolo seguente, con l’assalto a quella Bastiglia che sotto il suo regno aveva simboleggiato sinistramente il destino di chi si ribellava al potere regio (o di chi, come il suo fantomatico fratello gemello immaginato sempre da Dumas nella conclusione del ciclo dei Moschettieri, aveva la malasorte di attraversargli in qualche modo la strada).
Il Re Sole morì il 1° settembre 1715, e si dice che al suo funerale per le strade di Parigi partecipasse commosso tutto quel popolo a cui il vecchio re aveva tolto da tempo la voglia di ribellarsi, pur dandogliene rinnovate ragioni. Nel corteo funebre si dice che ci fosse addirittura Voltaire, l’antitesi filosofica prima ancora che politica a tutto ciò che Luigi XIV aveva rappresentato. Il re dei filosofi riconosceva in qualche modo la grandezza del più grande (e dispotico) dei re.
Al terzo posto tra i re più longevi, scavalcato proprio nell’ultimo anno da Elisabetta d’Inghilterra, si trova colui che più che diventare leggenda ha fatto una leggenda del suo paese. Bhumibol Adulyadej ascese al trono della Thailandia il 9 giugno del 1946. Il paese era uscito dalla Seconda Guerra Mondiale dalla parte degli sconfitti, essendosi alleato con i giapponesi che promettevano di aiutarlo a risolvere i contrasti con vecchi e nuovi potenziali oppressori: i cinesi ed i francesi.
Il Siam aveva cambiato nome in Thailandia (rifiutando la denominazione di origine cinese a favore di una autoctona) proprio negli anni della guerra. Nel 1946, con la Cina impegnata nella rivoluzione comunista e la Francia alle prese con la fine del colonialismo in Indocina, la Thailandia beneficiò di un clima favorevole per diventare una monarchia costituzionale indipendente e riconosciuta da tutti i paesi, saggiamente amministrata fin dal principio dal giovane re Bhumibol Adulyadej.
Il quale nei suoi 70 anni e 126 giorni di regno è riuscito a fare del suo paese una meta turistica tra le più ambite del mondo, tenendolo fuori dai guai malgrado 9 colpi di stato e la contiguità con una guerra, quella del Vietnam, che tra gli anni sessanta e settanta finì per travolgere tutta l’area del sud est asiatico. I thailandesi lo venerano come padre della nazione, il suo genetliaco, il 5 dicembre, è per loro coincidente con la festa del papà. E’ passato alla storia come Rama IX (della dinastia Chakri), e sta alla storia del suo paese come Il Re Sole sta a quella di Francia.
Giovanni II del Liechtenstein, detto il Buono, occupa il quarto posto della classifica. Nato nel 1840 in un’Europa che era ancora sostanzialmente quella uscita dal Congresso di Vienna, può essere anch’egli considerato il padre della sua per quanto piccola patria. Benché nato in Moravia, nell’attuale Repubblica Ceca, il principe ereditario di uno di quegli stati di cui la storia d’Europa è sembrata ogni tanto benevolmente dimenticarsi permettendo la loro sopravvivenza da epoche remote fino ad oggi (come la repubblica di San Marino, Andorra, il granducato di Lussemburgo) seppe barcamenarsi tra due vicini non sempre comodi, Svizzera ed Austria, facendo del suo stato una monarchia costituzionale illuminata fin dal 1862.
Salito al trono il 2 novembre 1858, lo avrebbe lasciato insieme alla vita terrena l’11 febbraio del 1929, una delle poche teste coronate sopravvissute a quell’Armageddon della Prima Guerra Mondiale che aveva posto fine al mondo antico in cui era nato. 70 anni e 101 giorni di un regno che gli avrebbe valso l’epitaffio di «Padre del popolo, aiuto dei poveri, amico della pace, pastore della tecnica, principe Giovanni il Buono».
Al quinto posto, finora, un personaggio la cui storia si mescola con la leggenda, nell’America precolombiana. K’inich Janaab’ Pakal, poi detto Pacal il Grande, divenne re di Palenque, insediamento Maya tra i più potenti nel territorio dell’odierno Chapas messicano, nel 615 d. C. Fu un re guerriero che, salito al trono come Luigi XIV in un momento di estrema turbolenza e grande pericolo interno ed esterno, seppe riconsolidare il suo regno attraverso una serie di vittorie militari contro le città-stato Maya circostanti. Vittorie che poi celebrò con installazioni artistiche ed architettoniche consegnate all’immortalità presso i posteri, come il Tempio delle Iscrizioni che rappresenta il suo mausoleo e contiene il suo sarcofago.
Il Grande, secondo la tradizione, regnò sui Maya per 68 anni e 33 giorni, lasciandosi dietro per poco più di un mese. Franz Joseph I von Habsburg, una figura storica di grande rilievo, essendosi guadagnato la fama di uno dei più grandi monarchi di tutti i tempi alla quale fa da contraltare peraltro quella di personaggio umanamente assai controverso (malgrado nell’immaginario popolare il mito di Cecco Beppe resista come positivo tutt’oggi), capace di governare i sentimenti personali e familiari così come governava l’Impero Austro-Ungarico: in maniera letale. Riuscì alla fine a distruggere entrambi: la sua famiglia e l’Impero.
Francesco Giuseppe salì al trono imperiale nel 1848, in un annus terribilis per le monarchie europee. Il Quarantotto, divenuto proverbiale, fu l’anno in cui Metternich – il garante dell’assetto uscito dal Congresso di Vienna – disse basta e passò la mano, mentre i liberali sembravano trionfare dovunque da Vienna a Parigi.
Il penultimo imperatore di una catena che risaliva a Carlo Magno rimase sul trono 67 anni e 355 giorni, facendo quasi a tempo a vedere le battute finali di quella Prima Guerra Mondiale che lui più di ogni altro aveva voluto, credendo che più che la piccola Serbia fosse possibile sconfiggere il mondo moderno che ormai si affacciava sulla scena europea e mondiale, facendosi beffe di vecchie corone e nobiltà opprimenti come la sua.
Dopo essersi visto venire a mancare tutti i suoi cari, spesso amareggiati fino in punto di morte dai suoi atteggiamenti e dalle sue decisioni, per soli due anni mancò di assistere alla morte dell’Austria-Ungheria che aveva voluto irrealisticamente fare ancora più grande di come l’aveva ereditata.
Il suo successore, il pronipote Carlo, avrebbe fatto appena in tempo a ratificare la sconfitta militare abdicando in favore della repubblica territorialmente ridotta alla piccola Austria da cui gli Asburgo avevano iniziato la propria ascesa diversi secoli prima. La piccola Austria sopravvissuta all’inutile strage che il suo prozio aveva voluto più di ogni altro.
Francesco Giuseppe d’Asburgo, come Luigi XIV di Borbone, è uno di quei sovrani che il popolo dovrebbe odiare per il male da essi in ultima analisi subito, e che invece finisce per coltivarne benevolmente la memoria. A riprova che la volontà della nazione mal si accompagna alla grazia di Dio e solitamente ne è anche un pessimo giudice. In quella Trieste dove il suddito di Sua Maestà britannica James Joyce avrebbe un giorno dichiarato di «aver lasciato l’anima», non era infrequente fino a non molto tempo fa trovare nei pubblici esercizi ritratti di Cecco Beppe, l’ultimo e più feroce ostacolo al riconoscimento della sua italianità.
Sua Maestà la regina, Elisabetta Windsor, ha superato da tempo l’ultimo imperatore, e si è fermata alla seconda posizione assoluta, essendo invece l’anima di Joyce per lei ormai irrecuperabile come quella di ogni irlandese che si rispetti. Per i gradini più alti del podio, si vedrà. In fondo, la Provvidenza per definizione non ha limiti.
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