ROMA – Alle 19,30 Carlo Cottarelli esce dallo studio di Sergio Mattarella. Poche ma sentite – e inevitabili – parole. «Orgoglioso di avere servito il mio paese. Un governo politico è preferibile ad uno tecnico, buon lavoro». Un’uscita di scena dignitosa e a testa alta come poche altre volte è stato dato di vedere in queste stanze del potere romano, e che non era scontata.
Lo stand by in cui Mattarella ha tenuto quest’uomo si era reso forse necessario dopo che lo stesso Mattarella si era chiuso in un angolo senza via d’uscita rispetto al paese di cui stava ignorando la volontà, ma di sicuro non passerà alla storia come un gesto elegante, se ancora è lecito esprimere giudizi sull’operato del presidente della repubblica in questo paese.
L’applauso della sala stampa del Quirinale è dunque un atto spontaneo e altrettanto dovuto che rende giustizia ad uno degli interpreti migliori di questa vicenda degli 88 giorni. Cottarelli libera la scena con stile, e adesso possono farvi il loro ingresso i veri protagonisti.
Alle 21,00 tocca dunque a Giuseppe Conte varcare per la seconda volta la porta che lo separa dall’incarico formale di governo. Sono passati otto giorni da quell’alba della Terza Repubblica che si era fatta subito livida, mentre i fulmini del caso Savona saettavano in lontananza ma sempre più vicini. Anche Giuseppe Conte, a prescindere da come andrà la sua azione di governo, passerà probabilmente alla storia di questa repubblica come un personaggio dotato di stile e perché no, di un certo carisma anglosassone che ce lo rende immediatamente simpatico.
Il professore ha trascorso questa sua ultima giornata da docente di giurisprudenza a tenere quella che sarà la sua ultima lezione, almeno per un po’. Lavorando (ci sono molti italiani che ancora lo fanno, Herr Juncker, se solo viene data loro la possibilità) e attendendo notizie da Montecitorio, dove Matteo Salvini incontra dapprima Giorgia Meloni e poi Luigi Di Maio.
Superato lo scoglio Savona con lo spostamento ai rapporti con l’Unione Europea del professore euro-scettico e la sua sostituzione all’economia del suo collega euro-perplesso Giovanni Tria, docente di economia politica a Tor Vergata, eccone subito un altro. Perché sarà anche vero che la Lega di Salvini ha in mano cerino e pallone (i sondaggi veri, non quelli commissionati da media più o meno fiancheggiatori del vecchio centrosinistra, danno il centrodestra al 41% – con scatto del premio di maggioranza del Rosatellum quindi – e la Lega da sola al 28%), ma le bizze del Movimento 5 Stelle sembrano non avere fine.
E dunque ecco lo sprezzante rigetto da parte di Di Maio & c. dell’offerta di Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia di entrare nel governo, con probabile utilizzo di Guido Crosetto nel ministero – pesante – della difesa. «Sono fascisti», pare che strepitino alcuni settori della base grillina. Sono sciocchezze, più degne della prosa di un Roberto Saviano che di un movimento che si appresta a governare il cambiamento.
Ma è infinita anche la pazienza di Salvini, che sommata all’intelligenza strategico-tattica della Meloni consentono di superare anche l’ultimo scoglio e di far convocare Giuseppe Conte dentro lo studio fatidico dove Mattarella gli firma le carte dell’incarico.
Quando esce, anche Conte è di poche ma sentite parole. «Rispetteremo il contratto e lavoreremo per il benessere di tutti gli italiani». Non gli si chiede altro, lui lo sa ed il suo stile si attaglia istintivamente al momento. Nessun accenno a questi otto giorni di follia, la classe – ed il riserbo istituzionale – non sono acqua.
Esce infine anche il presidente. Sergio Mattarella parla poco anch’egli, diversamente dal suo solito. Più delle sue parole vale la sua espressione di sollievo e contentezza contenuti e dissimulati dall’abitudine di una vita (politica) e dal background culturale siciliano. Mattarella sa di essere uscito da un angolo pericoloso, di aver scansato un impeachment che ad un certo punto era qualcosa di più di una possibilità (tutt’altro che campata in aria come millantato dalla solita stampa left-winger e da una corporazione di docenti universitari compiacenti per vocazione e per obblighi di carriera), di aver rimediato agli errori numerosi e clamorosi compiuti, grazie alla accondiscendenza delle forze politiche di maggioranza che hanno preferito lasciargli questa via d’uscita, forti della vecchia ma inossidabile massima di Giulio Cesare: a nemico che fugge, ponti d’oro.
E finalmente, dopo tre mesi che non dimenticheremo tanto facilmente e che come ha fatto notare giustamente qualcuno riportano la temperie politica del paese a tempi ormai lontani come gli anni settanta, l’Italia può andare a dormire serenamente o quasi (ad eccezione della componente PD che da ieri sera affolla le farmacie del servizio sanitario nazionale per acquistare dosi consistenti di Maalox e che si aggrappa agli ultimi petardi verbali sparati dal povero Martina), con due certezze: l’appuntamento alle 16,00 del 1° giugno, stesso luogo e stessi attori, per il giuramento che insedierà formalmente il 65° governo di questa repubblica, e la lista dei ministri che pubblichiamo di seguito:
Vicepresidente del Consiglio e ministro dello Sviluppo economico, Lavoro e politiche sociali: Luigi Di Maio.
Vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno: Matteo Salvini.
Sottosegretario alla presidenza del Consiglio: Giancarlo Giorgetti.
Economia: Giovanni Tria (Lega).
Esteri: Moavero Milanesi.
Giustizia: Alfonso Bonafede (M5S).
Politiche comunitarie: Paolo Savona.
Rapporti con il Parlamento e democrazia diretta: Riccardo Fraccaro (M5S).
Pubblica amministrazione: Giulia Bongiorno (Lega).
Affari regionali: Erika Stefani (Lega).
Sud: Barbara Lezzi (M5S).
Famiglia e disabili: Lorenzo Fontana (Lega).
Difesa: Elisabetta Trenta (M5S).
Politiche agricole: Gian Marco Centinaio (Lega).
Infrastrutture: Danilo Toninelli (M5S).
Istruzione: Marco Bussetti (Lega).
Beni culturali: Alberto Bonisoli (M5S).
Salute: Giulia Grillo (M5S).
Ambiente Sergio Costa.
18 ministri, 9 dei Cinquestelle, 6 della Lega, 3 i tecnici. 5 le donne. Almeno una, o un’altra, la concessione fatta dal buon senso alla ragione di stato. Riteniamo che Giulia Buongiorno sarebbe stata un grande ministro della giustizia, ma il governo del cambiamento almeno alla nascita non ha potuto esimersi da un certo utilizzo del vecchio Manuale Cencelli.
E dunque, entra in carica oggi il governo che terrorizza l’Europa, i sovranisti, i populisti, i barbari, gli sfascisti che distruggeranno il sogno europeo e faranno il male del loro paese. La UE schiuma rabbia attraverso i suoi rappresentanti istituzionali, il cui ennesimo pronunciamiento non si fa attendere. Il commissario Juncker non usa eufemismi: «gli italiani smettano di dare le colpe del loro malessere alla UE, lavorino di più e siano meno corrotti». Stavolta perfino un uomo di mondo come Tajani perde le staffe e chiede al collega lussemburghese una ritrattazione e le scuse.
Ma non è questo il vero buongiorno al nuovo governo italiano a cui mezza Europa guarda con speranza, perché se funziona si porterà dietro quella mezza Europa (e verso dove staremo a vedere). Il vero banco di prova arriverà presto, prestissimo sulle sanzioni che la UE medita di applicare agli USA per ritorsione ai dazi doganali applicati da questi ultimi.
Al governo voluto da quel Salvini che non ha mai fatto mistrero della sua amicizia con Donald Trump (oltre che con Vladimir Putin, altro motivo di frizione con l’Europa germanizzata) potrebbe essere chiesto di tuffarsi in una guerra doganale voluta da Francia e Germania contro il nostro alleato storico, quegli USA che secondo rumors probabilmente fondati hanno sostenuto il nostro paese anche in questi giorni di spread apparentemente e nuovamente impazzito.
Nessuno parla di uscita dall’euro, e nel contratto di governo non c’é scritto, con buona pace del giornalismo italiano da rotocalco. Ma non crediamo che il professor Conte dichiarerà guerra agli Stati Uniti d’America a fianco dell’alleato germanico. L’abbiamo già fatto una volta e non abbiamo ancora finito di pagarne le stupide e disastrose conseguenze.
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