Per tutti gli anni sessanta, la fiction della RAI – allora si chiamavano sceneggiati, o riduzioni televisive – era stata uno dei fiori all’occhiello della sua programmazione. La domenica sera, prima della Domenica Sportiva, era il momento in cui i telespettatori italiani si ritrovavano alle prese – ed in molti casi facevano pace – con i grandi classici della letteratura. Da Cronin a Stevenson, a Durrenmatt, a Simenon, a Manzoni, la TV di Stato compiva quell’opera di riconciliazione del nostro popolo con la sua cultura letteraria che non era riuscita ad altri soggetti istituzionali, a cominciare dalla scuola.
Grandi registi, grandi sceneggiatori, grandi attori avevano portato per mano un pubblico sempre più ampio fino nelle profondità delle terribili miniere del Galles della rivoluzione industriale, nei castelli dell’Inghilterra infiammata dalla Guerra delle Due Rose, lungo il fiume e sull’acqua o tra i bistrot parigini dove erano avvenuti efferati delitti, inspiegabili finché un tenente Sheridan o un commissario Maigret non riuscivano a dipanarne la matassa. E Nino Castelnuovo e Paola Pitagora erano riusciti a fare amare Renzo e Lucia più di quanto fosse mai capitato a qualunque professore delle nostre scuole.
Il 16 maggio 1971 la RAI calò il suo asso. Dopo tante produzioni fortunate ed all’altezza dei classici che avevano ridotto e fatto ri-conoscere ai cittadini italiani, nell’ambito della felice politica del non è mai troppo tardi, arrivò il momento della fiction vera e propria. Giuseppe D’Agata, uno degli sceneggiatori più promettenti di quella nouvelle vague letterario-televisiva, si era inventato la favola nera che avrebbe tenuto gli spettatori incollati a divani e poltrone per ben cinque settimane. Occultismo, esoterismo, spiritismo, reincarnazione, non erano soggetti facili da trattare per una televisione ancora sottoposta a censura e per una società che lottava ancora faticosamente per la propria emancipazione. George Byron, il Conte di Cagliostro, non erano archetipi facili nemmeno loro, poeti e scienziati maledetti, prima di tutto da una cultura che era ancora pesantemente cattolica per le influenze che subiva.
Le avventure di Ugo Pagliai per le strade di una Roma notturna e piena di misteri, alle prese con il fantasma di Carla Gravina ed altre «tenebrose presenze» nonché assai più terrene cospirazioni alla ricerca del misterioso e potentissimo Segno del Comando, tennero come detto avvinta l’Italia per tutta la seconda parte di quella primavera del 1971, fino alla conclusione che anticipando i tempi e le mode in realtà concludeva sì e no, lasciando in sospeso diversi enigmi e quesiti.
Ci fu anche un giallo nel giallo. La sera del 13 giugno in cui era programmata la quinta ed ultima puntata dello sceneggiato – con una aspettativa nel pubblico pari a quella di una finale di un mondiale di calcio -, la zona di Firenze subì un black-out elettrico degli impianti RAI che impedì ai fiorentini l’attesa visione della soluzione dell’enigma.
La puntata finale dello sceneggiato fu ovviamente recuperata, e con essa il malumore dei fiorentini. Ed anche sull’Arno si poté sentir risuonare per l’ultima volta lo stornello romano cantato da Nico Tirone, voce del gruppo Nico e i Gabbiani, dopo aver visto svelato il destino del professor Forster e la natura di Lucia, la sua visione ultraterrena.
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