(Un Anello per domarli, un Anello per trovarli, Un Anello per ghermirli e nel buio incatenarli…)
«Il mondo è cambiato. Lo sento nell’acqua. Lo sento nella terra. Lo avverto nell’aria. Molto di ciò che era si è perduto, perché ora non vive nessuno che lo ricorda».
Era nato il 3 gennaio 1892 a Bloemfontein, nello Stato di Orange in Sudafrica. Ma era inglese dalla testa ai piedi, e lo sarebbe rimasto orgogliosamente per tutta la vita. Come il suo eroe Aragorn, aveva dovuto lottare per recuperare il proprio posto nella sua storia personale e in quella del suo paese, ma alla fine il Re era ritornato, il più straordinario degli scrittori di un genere da lui inventato, il fantasy, aveva donato al mondo occidentale uno dei suoi più grandi capolavori letterari per il tempo a venire.
John Ronald Reuel Tolkien era rimasto precocemente orfano, ma almeno la madre aveva fatto in tempo a trasmettergli e coltivargli inizialmente la passione per le lettere, per la lingua inglese antica e moderna, per le fiabe e leggende che alimentano da sempre la cultura anglosassone, da quando il popolo degli Angli mise piede nell’isola spodestando le genti celtiche e romane.
Nel 1914, quando il mondo era cambiato a sufficienza da scatenare la volontà di potenza che si era accumulata da decenni ed era caduto preda di Oscuri Signori e dei loro Anelli del Potere, il ventiduenne Tolkien si era arruolato nel British Expeditionary Force in Francia. Il suo servizio era culminato nell’immane tragedia consumatasi sulla Somme nei ripetuti e inutili tentativi alleati di spezzare l’agonia della guerra di trincea. Gli assalti si erano rivelati vani come quello che lui avrebbe un giorno immaginato di ambientare nel Fosso di Elm. I difensori avevano resistito all’attacco degli Orchi, la battaglia per l’Europa era continuata così come quella per la Terra di Mezzo, molti amici di Tolkien erano rimasti esanimi sulle sponde della Somme. Lui stesso vi aveva contratto la malattia che gli valse il congedo ed il ritorno in patria.
Era il 1917, un altro anno in cui l’Ombra sembrava distendersi incontrastata sul mondo degli uomini. La Russia era stata sconvolta da una rivoluzione sanguinosa e spaventosa, gli Imperi Centrali sembravano sul punto di prendere il sopravvento e fare del continente un lebensraum germanico, l’aiuto degli Stati Uniti alla ex Madrepatria ed alla civiltà occidentale era giunto appena in tempo, come la cavalcata degli Eurlingas di Rohan richiamati da Gandalf ne Le Due Torri, o come quella di Re Teoden sotto le mura di Minas Tirith nella battaglia finale de Il Ritorno del Re, la resa dei conti con Sauron.
Pochi anni dopo, il re dei filologi e degli scrittori di cose antiche e perdute, perché accadute in un’epoca di cui nessuno aveva più memoria, era tornato. O per meglio dire, si era insediato in quella cattedra di filologia anglosassone presso la prestigiosa Università di Oxford, allora il centro del mondo evoluto, da cui avrebbe potuto dare sfogo alla sua creatività letteraria, dando vita alle storie, ai personaggi ed a quelle lingue perdute (da non pronunciare nei luoghi sbagliati) che da tempo lottavano per riversarsi al di fuori della sua fantasia ed entrare in quella di molti altri.
Cominciò tutto con una frase, scritta quasi per gioco su un foglio bianco: «In un buco nel terreno viveva uno hobbit». La storia della letteratura è piena di capolavori nati per caso o per gioco, da un incipit buttato lì per scommessa. A Oxford, Tolkien aveva fatto amicizia con altri professori, tra cui Clive Staples Lewis, e con lui aveva fondato il circolo degli Inklings, i pasticcioni dell’inchiostro. Lewis e Tolkien si sfidarono ad una battaglia fantasy: chi riusciva meglio a rievocare quel magico mondo medioevale che costituiva il nebuloso e favolistico passato dell’Inghilterra. Nacquero così rispettivamente le Cronache di Narnia e Il Signore degli Anelli. Il secondo fu pubblicato in Inghilterra il 28 luglio 1954.
Frodo: Vorrei che l’Anello non fosse mai venuto da me. Vorrei che non fosse accaduto nulla.
Gandalf: Vale per tutti quelli che vivono in tempi come questi, ma non spetta a loro decidere; possiamo soltanto decidere cosa fare con il tempo che ci viene concesso.
La trilogia che prende il via da dove si era concluso Lo Hobbit, il viaggio di Bilbo Baggins per riportare a casa il misterioso anello che poi lascia in eredità – una pericolosissima eredità – al nipote Frodo, è probabilmente la storia più nota ai lettori (ed a questo punto anche ai cinefili) di ogni generazione.
Negli anni sessanta, Il Signore degli Anelli era già il testo fantasy più conosciuto (e strumentalizzato) di tutta la letteratura mondiale. Per quanto il suo autore si sforzasse, fino alla morte avvenuta a Bournemouth il 2 settembre 1973, di rifiutare qualsiasi interpretazione della critica tra quante pretendevano di individuare nel suo libro – e negli altri che completano la saga come prequel o sequel – i più disparati messaggi, il Signore degli Anelli è un libro talmente carico di significato ed evocativo, talmente ben scritto sia da un punto di vista narrativo e letterario che da un punto di vista filosofico, da prestarsi inevitabilmente a tutti i tipi di lettura.
E dunque, fu issato come un vessillo dai pacifisti degli anni sessanta che manifestavano contro la Guerra del Vietnam e gli imperialismi, così come poco dopo – allorché l’onda del riflusso cominciò a lambire l’opinione pubblica – fu adottato da chi da destra invocava il ritorno a valori e atteggiamenti più combattivi, in difesa della civiltà occidentale minacciata dalle ombre che sempre più minacciose provenivano da Est.
Mordor nella Terra di Mezzo è situata ad Est, e da oriente l’Occhio di Sauron scruta le contee abitate dagli uomini, bramando di impossessarsene dopo aver scatenato il suo esercito di creature infernali. Per quanto Tolkien la rigettasse, era inevitabile l’identificazione della saga di Frodo, Aragorn, Gandalf con la battaglia contro le armate delle tenebre prima scatenate da Hitler e poi da Stalin e provenienti da est ad insidiare gli uomini liberi dell’ovest.
Era inevitabile anche che i giovani lettori di tutte le epoche si lasciassero sedurre dalla religiosità da cui è pervasa la storia dell’Anello e della Compagnia che lo scorta al suo destino. Una religiosità naturale – custodita e coltivata da creature soprannaturali e tuttavia profondamente naturali come gli Elfi – che contrasta assai con quella artificiosa imposta dalle religioni monoteistiche al mondo moderno.
Come la Forza nella saga di Guerre Stellari di George Lucas – che non ha mai fatto mistero di essere stato profondamente influenzato anche dall’opera di Tolkien –, il Bene ed il Male in lotta perenne tra loro sono divinità percepibili in ogni angolo del mondo abitato dagli uomini, in ogni più piccola e insignificante manifestazione della natura che li circonda, in ogni minima vibrazione dell’aria che respirano, dell’acqua che bevono, della terra che calpestano e lavorano. E’ una religione dell’energia vitale che ci circonda, ci pervade, di cui facciamo parte dalla nascita e in cui ritorniamo a confluire con la morte.
Gandalf: «Molti di quelli che vivono meritano la morte, e molti di quelli che muoiono meritano la vita. Tu sei in grado di valutare, Frodo? Non essere troppo ansioso di elargire morte e giudizi. Anche i più saggi non conoscono tutti gli esiti».
Era destino che la potenza immaginifica suscitata dalle parole di Tolkien incontrasse prima o poi un uomo delle stelle, un cinematografaro capace di tradurre in immagini altrettanto potenti le storie raccontate dal professore di Oxford ai suoi compagni del circolo letterario degli Inklings e poi adottate da giovani e meno giovani sognatori della seconda metà del ventesimo secolo, che si ritrovavano grazie a quelle storie catapultati a vivere in altri secoli dove tutto era più semplice e drammatico, favolistico e magico.
Dopo una serie di film d’animazione prodotti alla fine degli anni settanta dalla casa di produzione inglese Rankin/Bass Productions, quell’enorme e suggestivo copione costituito dai tre libri del Signore degli Anelli capitò sul tavolo di un estroverso e fino a quel momento sconosciuto regista neozelandese, Peter Jackson. Su di lui e sul suo entusiasmo investirono inizialmente la Walt Disney Company e la sua controllata Miramax Films. Ritiratasi la Disney, per una volta spaventata dai costi e dalle difficoltà di produzione, fu la volta di un altro colosso, la Warner Bros, farsi carico attraverso la sua controllata New Line Cinema di un progetto che stava diventando più oneroso di quanto fosse rigettare l’Anello nella forgia del Monte Fato.
Peter Jackson ambientò la Terra di Mezzo nella natìa Nuova Zelanda, e realizzò la trasposizione cinematografica della fiaba prediletta della nostra infanzia e adolescenza senza sbagliare un solo dettaglio. Il resto è storia, una storia che ormai sentiamo nell’acqua, sentiamo nella terra, avvertiamo nell’aria. Il mondo può cambiare e cambierà sempre, ma ci sono cose ormai che non possono essere più perdute. Che resteranno nella memoria per sempre.
Una di queste è la storia del Signore degli Anelli, di John Ronald Reuel Tolkien e di Peter Jackson.
Boromir: Tu l’hai mai vista, Aragorn? La bianca torre di Ecthelion. Luccica come una lancia di perle e di argento. I suoi vessilli catturati dal vento del mattino. Sei mai stato accolto a casa dal chiaro suono di trombe d’argento?
Aragorn: Ho visto Minas Tirith. Tempo fa.
Boromir: Un giorno, le nostre vie ci condurranno lì. E la guardia della torre leverà il grido: «I signori di Gondor sono tornati!»
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