«Sicilia, chistu è ‘u mio lascito alla mia bedda terra».
(Andrea Camilleri)
E anche Riccardino va a raggiungere il suo posto, preparato da tempo, nella mia biblioteca. Accompagnato da un po’ di emozione, com’era prevedibile. Il suo autore se n’è andato da più di un anno. Ma aveva lasciato questo libro da pubblicarsi postumo, perché voleva che le cose – almeno per il suo protagonista prediletto – si concludessero in un certo modo. Il modo che piaceva a lui.
Devo fare una confessione. Per oltre 20 anni sono stato un fan di Andrea Camilleri, ho tutti i suoi libri, comprati regolarmente al massimo entro 24 ore dalla loro uscita. Oltre alla serie di Montalbano, ho apprezzato – e in certi casi ho nel cuore, nel mio cuore di italiano che ama il suo paese ma che non lo capirà e non lo accetterà mai fino in fondo – capolavori come la Concessione del telefono, la Bolla di componenda, il Birraio di Preston, affreschi tragicomici di una Sicilia e appunto di un’Italia d’altri tempi ma forse ancora più che attuali.
Quanto al suo personaggio principale, al commissario (al quale Luca Zingaretti ha prestato in TV il volto e l’interpretazione egregiamente, fin quasi a identificarvisi), era impossibile non affezionarsi a lui, anche se faceva e fa tutt’ora sorridere questa raffigurazione di una Sicilia in cui la Mafia quasi non esiste, appare di sfuggita come un fenomeno marginale.
Ma la cosiddetta cifra stilistica dello scrittore non si discute, ‘nzamà! Quando fosse venuto il momento – ed alla fine è arrivato, alla sua novantaquattresima primavera il maestro ha dovuto arrendersi alla legge di natura -, Camilleri sarebbe andato a completare l’occupazione dello spazio a lui dedicato nella mia libreria, ma soprattutto ad aggiungersi al corridoio vasariano dei grandi autori siciliani, e italiani.
La morte è una livella, diceva Totò, un altro maestro come lui. Fa giustizia di tutto, a cominciare da certi malintesi che magari non dico hanno guastato la vita, ma l’hanno di sicuro complicata. Negli ultimi anni, devo dire (e per quello che vale), qualcosa mi si era rotto dentro, nei confronti di Camilleri e di quelli della sua creatura prediletta. Li trovavo entrambi un po’ troppo politicizzati, per i miei gusti. Un po’ troppo buttati – come dire – a sinistra.
Gli ultimi episodi delle indagini del Commissario mi sembravano quasi uno spot a favore di un certo partito e di una certa presa di posizione a proposito della questione dei migranti, e non solo. Sembravano scritti da Leoluca Orlando, più che da Andrea Camilleri. Quanto agli Zingaretti, confesso che ultimamente faccio fatica a distinguere tra Luca e Nicola, tra il Commissario ed il candidato segretario di quel certo partito.
Insomma, ero distratto da altre considerazioni non propriamente letterarie, e non mi appassionavo più alla fiction. Non mi sforzavo più di credere alla Sicilia con poca o nessuna criminalità organizzata, all’Italia dove tutti sono fondamentalmente buoni e vanno capiti prima che arrestati, anche i ladri e gli assassini. Mi divertivo ancora – quello sì, se proprio devo dire – a quel gioco diventato istintivo consistente nel decifrare e padroneggiare alla fine il dialetto siciliano, scoprendomi sempre più addentro alla sua musicalità ed espressività.
La cucina di Enzo e di Adelina mi mettevano sempre l’acquolina in bocca. Che dico, una fame da lupi. Un pititto lupigno mi smorcava. Ma finiva lì, o rischiava di farlo. La magia non c’era più. Sono invecchiato assieme a tanti autori scoperti da ragazzo, o comunque da assai più giovane di adesso. Con Camilleri per poco non è andata a finire diversamente. Improvvisamente, mi sembrava che non avessimo più niente lui da dirmi e io da leggere.
Poi è arrivata la livella. Alle esequie del maestro ho partecipato davanti alla mia libreria. A tutti i suoi libri che d’improvviso mi hanno ricordato, in silenzio, il perché si trovavano lì. E come tutti, mi sono messo ad aspettare Riccardino. Alla fine la Sellerio l’ha pubblicato, come da ultime sue volontà. Alla fine, me lo sono rigirato in mano insieme a quelle ultime volontà, meravigliandomi allo sfogliare quelle ultime pagine scritte attingendo ad un genio inesausto fino ai suoi ultimi istanti.
Il vecchio sceneggiatore di teatro e di TV che un giorno sarebbe diventato grande scrittore, alla fine non ha tradito. Ed ha allestito l’ultima sceneggiatura da par suo, giocando con se stesso ed il suo personaggio in una pièce teatrale, una commedia delle parti come se ne leggono poche.
Alla fine, Camilleri e Montalbano salutano la loro e nostra Sicilia come era logico che avvenisse: senza aver risolto l’ultimo mistero, perché irrisolvibile alla luce della nostra situazione sociale, politica, giudiziaria. Alla luce della nostra italianità. Ma con sovrana, e soltanto appena un po’ malinconica accettazione di ciò. Montalbano, in fondo, aveva già capito tutto di come va il mondo fin dalla sua prima indagine: «Insomma ci sono uomini di qualità che, messi in certi posti, risultano inadatti proprio per le loro qualità all’occhi di gente che qualità non ne ha, ma in compenso fa politica». (da La prima indagine di Montalbano, Oscar Arnoldo Mondadori Editore, novembre 2005)
In fondo, all’ultima sua pagina scritta in questa vita Camilleri è arrivato dove voleva, e lì ha fatto arrivare Montalbano, e noi con lui. Quel piccolo mondo antico e moderno di Vigata scompare insieme alle usciate di Catarella, ai pizzini di Fazio, alle telefonate a tarda notte di Livia che non vanno mai a finire bene, ai pranzi pantagruelici da Enzo ed alle cene lasciate in forno da Adelina, ma soprattutto all’intelletto del poliziotto Montalbano, il tutto dissolvendosi come in un sogno ad occhi aperti sulla verandina della casa di Marinella. Da cui, assieme al suo abitatore sentiamo per l’ultima volta risuonare il rumore del mare.
Vi siano lievi gli scaffali delle nostre librerie, Andrea Camilleri e Salvo Montalbano.
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