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Indiana Jones e il ritorno dell’avventura

Indiana Jones

In principio era l’universo infinito della fantasia di un giovane neolaureato in cinematografia. L’Università di Los Angeles era stata la prima ad avere un corso di laurea dedicato alla Decima Musa, e George Lucas era stato uno dei primi a conseguirne il diploma.

Al principio degli anni settanta Lucas aveva già dimostrato di essere un visionario di talento, ma anche un cineasta che sapeva il fatto suo, sia nella scelta delle sceneggiature (una delle quali 42 anni dopo ci tiene ancora avvinti con i suoi sviluppi) che nella loro traduzione in immagini.

Nel 1971 il genio del ragazzo nato a Modesto – ma che modesto non era affatto, dietro la macchina da presa e sui set – si era già manifestato appieno con American Graffiti, elegia del rock & roll e della vita americana negli anni d’oro del dopoguerra. Una specie di prequel di quell’Happy Days che ci avrebbe tenuti incollati alla fascia televisiva preserale per tutto il resto del decennio.

Harrison Ford alias Indiana Jones

Lucas aveva intanto fatto nel frattempo amicizia con un altro genio, anch’egli fresco reduce dalla sua straordinaria opera prima. Duel era un film innovativo, sia nella sceneggiatura che nella realizzazione. L’inseguimento del commesso viaggiatore da parte del camion di cui non si vede mai l’autista era molto di più di una metafora sulla vita contemporanea (non per nulla lo script era frutto della penna di un maestro del fantasy sociale come Richard Matheson). Era la prova che pochi erano in grado di stare al passo delle visioni di Steven Spielberg.

Uno di questi era Lucas, appunto, che gli propose un tuffo nostalgico nelle grandi avventure a fumetti di quando il mondo era più giovane e loro erano due dei tanti ragazzi americani cresciuti a pane e comics. Uno dei maestri letterari dell’avventura, ripreso anche dal cinema, era stato lo scrittore britannico Henry Rider Haggard, ed il suo Allan Quatermain alla ricerca delle miniere di Re Salomone aveva dato il via ad un genere.

Raiders of the Lost Ark, i Predatori dell’Arca Perduta, si sarebbe rivelato molto più che un omaggio a quel genere. Solo che non era ancora il momento. In quel 1973 in cui ne parlarono per la prima volta, Lucas e Spielberg erano alle prese con altri parti inprocrastinabili delle rispettive fantasie. Lucas stava scegliendo il cast di un film di fantascienza che prometteva di rivoluzionare il genere, il titolo era magari banale ma la storia non lo era affatto: Guerre Stellari. Spielberg si era immerso nella produzione di un altro film che avrebbe rivoluzionato anch’esso il rispettivo genere. Protagonista era uno dei mostri che da sempre alimentano le nostre paure più recondite, incontrollabili, ancestrali: lo Squalo.

«La Germania ha dichiarato guerra ai ragazzi Jones!»

Alla fine del decennio, i due ex ragazzi terribili del cinema americano erano già diventati due veterani carichi di gloria e di premi. Terminate le ultime fatiche, rispettivamente L’Impero colpisce ancora per Lucas e 1941 Allarme a Hollywood per Spielberg, era giunto finalmente il momento di decidere che fare di quel vecchio progetto concernente le avventure di un archeologo sui generis, vestito come un pistolero del West, con il testa quello che sarebbe diventato uno dei cappelli più celebri, il borsalino, ed al fianco la frusta destinata ad altrettanta celebrità.

Il personaggio aveva tutto per conquistare il pubblico, gli mancava soltanto un nome adeguato ed il novello Quatermain sarebbe stato pronto ad andare a caccia di tesori archeologici in tutto il mondo, facendo stragi di cuori femminili e sfuggendo alle trappole letali tesegli dai nemici per antonomasia dell’americano medio all’epoca in cui grazie a Dio il mondo si divideva in bianco e nero: dapprima i nazisti, poi i sovietici.

Sul nome, la leggenda vuole che Lucas e Spielberg avessero qualche dissidio. All’anagrafe l’eroe doveva chiamarsi Henry Jones jr., professore di archeologia figlio di Henry Jones sr. professore di storia medioevale (che nel terzo episodio della serie sarebbe stato interpretato nientemeno che da uno Sean Connery magnificamente invecchiato come il vino di gran marca). Per i suoi fans, invece, l’avventuriero avrebbe avuto il nome di battaglia di Indiana Jones. Lucas alla fine impose il nome del suo cane, un alaskan malamute che già gli aveva ispirato le sembianze del Chewbecca di Guerre Stellari ed a cui era affezionatissimo. La battuta finale di Indy nel terzo film è autobiografica per Lucas: «Indiana era il nome del mio cane, ho un sacco di bei ricordi con quel cane!»

«Come prima cosa, tu torni all’università a studiare!»

E dunque Indiana Jones fu. A quel punto si trattava di trovargli una faccia all’altezza. In quegli anni uno degli avventurieri che andavano per la maggiore era Tom Selleck, beniamino del pubblico televisivo con il suo detective hawaiiano Magnum P.I.. Selleck prometteva di cavarsela sicuramente con il cappello e la frusta di Indiana Jones, ma il suo destino non era quello. Come Cary Grant vent’anni prima era stato impedito da precedenti contratti dovendo lasciare il ruolo di James Bond a Sean Connery, così l’investigatore privato sotto contratto con la CBS si vide costretto a rinunciare al progetto, perdendo forse l’occasione della vita.

Che non si fece sfuggire invece Harrison Ford. Il ragazzo di Chicago, che alternava la recitazione alla falegnameria, era una vecchia conoscenza di Lucas, che gli aveva affidato una parte di contorno in American Graffiti e poi una da protagonista in Guerre Stellari. Il suo Han Solo era stato un successone, e quella sua faccia da simpaticissima canaglia era proprio quella che ci voleva per rendere avvincente quanto scanzonato al punto giusto il nuovo personaggio

Il resto è storia. Il 12 giugno 1981 I Predatori dell’Arca Perduta uscì nelle sale americane. Dalla scena iniziale, in cui la montagna del logo della Paramount sfuma nella montagna sacra degli Avitos a cui Indiana Jones deve sottrarre il prezioso idolo d’oro, a quella prima apparizione del professore avventuriero che inizialmente dà le spalle al pubblico e poi si gira assorto e silenzioso ripetendo l’entrata in scena di Connery nel primo Bond (per la serie, parla l’espressione del volto e tanto basta), Il film fece centro pieno e da subito, riuscendo a riprendere degnamente il filone avventuroso di un cinema che sembrava ormai datato e a farne un nuovo genere a se stante, dove perfino eccessi ed effetti speciali avevano la loro divertente ragion d’essere.

“La bambina di Abner…”

Indy è Indy, hai voglia a cercare di catalogare i suoi film. E’ l’americano medio, ma molto più acculturato della media ed altrettanto impavido e temerario. Non si tira indietro davanti a niente, a parte i serpenti e la linea di confine stabilita dal suo codice morale. Un reperto archeologico, per quanto pregiato e carico di misteriosi poteri che farebbero gola a qualsiasi governo e a molti pessimi individui, deve stare in un museo. Indiana Jones è il nostro eroe, e combatte per tutti noi.

Dall’Arca Perduta ai misteri del Tempio Maledetto, al Santo Graal, all’Idolo di Cristallo dei Conquistadores, alla serie TV che ci racconta degli anni della sua formazione, la saga di Indy attraversa quarant’anni del nostro cinema e della nostra vita. E non invecchia, come non invecchiano i suoi protagonisti. Harrison Ford nel quarto film girato nel 2012 anticipa il miracolo del settimo episodio di Guerre Stellari del 2015: si può essere eroi ancora credibili anche con i capelli ormai bianchi e qualche ruga sul viso che quando si voltò presentandosi al pubblico per la prima volta nel 1981 non aveva. Il suo sorriso beffardo e quella luce da ragazzaccio negli occhi affascinano ancora, e del resto la lezione su come metterli a frutto gliela ha impartita nientemeno che quel Sean Connery che è stato al suo fianco come il più credibile dei padri nell’Ultima Crociata.

Di tutte le eroine di cui è disseminata la saga di Indy ed i cui cuori più o meno infranti si è lasciato dietro, non invecchia nemmeno Karen Allen, nei panni di quel primo amore – Marion Ravenwood, figlia del suo vecchio mentore – che alla fine sarà anche l’ultimo, con cui convolare a giuste nozze, testimone il loro figlio a cui nel quarto episodio Indy lascia volentieri più di una di quelle scene acrobatiche che all’inizio erano tutte sue. La Allen ha quel suo immutato fascino acqua e sapone, proprio quello che ce la rende la più carina (sulla bravura non si discute) e la più degna di concludere le avventure di Indiana Jones a fianco del suo – come lo chiama lei – spostato di successo.

Concludere? Forse anche sì, per la generazione che ci ha portati fino a qui. Ford e la Allen, come successo anche ai loro omologhi dell’altra franchise, Guerre Stellari, forse sono davvero pronti a lasciare le prossime battaglie ed i prossimi inseguimenti a perdifiato alla generazione successiva incarnata da quel loro figlio, Henry Jones III, magari ancora con le sembianze di Shia LaBeouf che lo interpretò nel 2012 e che era stata una scelta altrettanto convinta di Lucas per quel ruolo di quanto lo era stata trent’anni prima quella di Harrison Ford per il ruolo del padre.

In attesa di un ennesimo sequel o di uno spin-off per i quali sia Lucas che Spielberg si sono dichiarati molto propensi, non c’é altro da fare che mettere su la vecchia fanfara di John Williams. E poi chiudere gli occhi e, come fecero quei due ragazzi dalla fantasia sconfinata una quarantina d’anni fa, cominciare a sognare. Aggrappati al paraurti di un camion o di una jeep lanciati a folle velocità, al tender senza controllo e senza freno scaraventato sui binari di una tenebrosa miniera senza fondo, o a qualche altra diavoleria diretta verso qualche altra avventura mozzafiato.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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