Il 19 gennaio 1966 l’India stupì il mondo presentandogli il suo nuovo primo ministro. Una donna, la prima della sua storia plurimillenaria, una delle prime nella storia del mondo moderno.
Indira Gandhi portava il cognome del Mahatma, ma era figlia dell’uomo che aveva gestito l’indipendenza del suo paese dal Raj britannico in antitesi alla Grande Anima. Jawaharlal Nehru, leader induista del Partito del Congresso, era stato la mente politica del movimento indipendentista, dove Mohandas Karamchand Gandhi era stato il leader spirituale. Nel 1947 tutto ciò che il Mahatma aveva sognato per la sua gente si era finalmente avverato, anche se in realtà niente era andato come lui l’aveva sognato, a cominciare dalla secessione del Pakistan musulmano.
Nehru aveva preso le consegne dall’ultimo governatore inglese Lord Mountbatten nel momento in cui il subcontinente stava per esplodere. Allora o mai più. I pakistani di Muhammad Ali Jinnah se n’erano andati per una strada, gli indiani per un’altra. La notte dell’indipendenza Gandhi si era coricato ed aveva chiuso gli occhi, rifiutando di assistere ai festeggiamenti per un qualcosa che non era come lui aveva sperato. Ma che almeno aveva evitato ulteriori e più gravi spargimenti di sangue tra due etnie che non si sopportavano reciprocamente da tempo immemorabile.
La giovane Indira era cresciuta tra questi due personaggi, il padre biologico e quello spirituale (Bapu – papà in sanscrito – era un altro soprannome del Mahatma). Aveva preso il cognome dal marito Feruze, un lontano parente della Grande Anima. Lo avrebbe portato orgogliosa fino alla morte, occorsale quasi vent’anni dopo essere succeduta al padre Nehru nella carica più prestigiosa ed importante della federazione indiana: primo ministro. La nazione più tradizionalista del mondo ruppe clamorosamente la tradizione e la incoronò due anni dopo la morte del padre stesso. E con tredici anni di anticipo sull’ex Raj, l’Inghilterra che solo nel 1979 con Margaret Thatcher avrebbe seguito il suo esempio e avuto la sua lady di ferro.
L’India di Indira era ormai molto diversa da quella del padre, che si era dilaniata per motivi religiosi. Quello del 1966 era un paese dove il Partito del Congresso non funzionava più come contenitore di istanze politiche disparate e passioni travolgenti, una specie di enorme Democrazia Cristiana sub-asiatica. Il comunismo delle vicine repubbliche sovietica e cinese stava facendo proseliti anche a Nuova Delhi, nella situazione economica aggravata dall’interminabile guerra di confine con il Pakistan e dallo sforzo per entrare nel club delle potenze nucleari, evento che l’India festeggiò nel 1974 proprio con Indira.
La quale aveva cercato al suo paese una collocazione internazionale al di fuori della logica dei blocchi, diventando leader del Movimento dei Non Allineati assieme al presidente della Jugoslavia Tito e al lider maximo cubano Fidel Castro. Non bastava, la condizione di estrema povertà di gran parte della sua popolazione in contrasto con lo sforzo modernizzatore e la politica di potenza – almeno regionale – del suo governo favorirono l’insorgere e l’aumentare dei movimenti separatisti, probabilmente alimentati strumentalmente dalla propaganda comunista (erano gli anni dell’invasione sovietica dell’Afghanistan). Come quello dei Sikh nel Punjab, che Indira represse duramente e che finì per costarle la vita.
Il 31 ottobre 1984, Indira fu abbattuta a colpi d’arma da fuoco dalle due guardie del corpo Sikh che l’aspettavano in apparenza per scortarla verso una nuova giornata di governo. Ma la dinastia Gandhi non era finita con lei. Il figlio Rajiv, uno dei due avuto dal marito Feruze (dal quale si era presto separata) le successe il giorno stesso del suo omicidio. Quasi si trattasse di una successione dinastica imperiale, e non dell’investitura del partito del Congresso.
Rajiv aveva sposato un’italiana, Sonia Maino, e aveva mantenuto rapporti stretti con l’Italia. Talmente stretti da essere spesso chiacchierato per certi affari con ditte italiane per lo più fornitrici di armi e di infrastrutture petrolifere. Quando il destino ha presentato il conto anche a lui, stavolta armando la mano delle Tigri Tamil (l’organizzazione militare clandestina che lottava per l’indipendenza dei tamil di Sri Lanka), lo scettro del Partito del Congresso è passato alla moglie Sonia, che tuttavia intelligentemente (per non urtare le suscettibilità nazionalistiche indiane, soprattutto a seguito della vicenda dei Marò italiani) ha sempre rifiutato di accettare la nomina a primo ministro.
«La forza di un paese in ultima analisi consiste in ciò che esso può fare da solo, non in ciò che può prendere a prestito da altri»
(Indira Gandhi)
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