Nessuno si senta escluso. Ma la storia parla chiaro. Italia-Inghilterra, di cui domenica sera a Wembley andrà in onda la ventottesima replica, non è una partita qualsiasi. Non è nata per esserlo, e non lo sarà mai.
E’ il classico del calcio mondiale. Quando si è trattato di stabilire chi era il più forte, spesso si è risolta in una questione tra noi e loro. A cominciare da quell’epoca leggendaria in cui si trattò di decidere se valeva più il titolo di maestri o quello di campioni.
La nazionale inglese dei Tre Leoni, lo stemma di Riccardo Cuor di Leone, è la più antica del mondo. Fu fondata nel 1870 dalla federazione che raccoglieva le squadre del paese che aveva inventato il gioco del calcio, o per meglio dire l’aveva ricodificato a partire da una versione che si era giocata a Firenze nel Rinascimento, sostituendo principalmente i piedi alle mani.
La federazione si chiamava Football Association, e questo la dice lunga. Nessuno sentiva il bisogno di aggiungere un aggettivo qualificativo come english o british. Il fatto era che gli inglesi tendevano ad identificare e a delimitare il mondo civile – e tra le altre cose anche i suoi passatempi – con le Isole Britanniche. Un po’ come succede oggi in America con la federazione del basket, la NBA, che i suoi compatrioti orgogliosamente definiscono the world championship, il campionato del mondo. Quello che succede all’estero, semplicemente, non ha rilevanza. Non conta.
Per lungo tempo dopo quel 1870 in cui l’Inghilterra giocò la sua prima partita ufficiale contro la Scozia (all’epoca il Regno Unito si componeva di quattro nazionalità, sommando anche il Galles e l’Irlanda, che poi si sarebbe staccata in gran parte dalla corona) il football fu per l’isola ai confini d’Europa una questione interna.
Il torneo interbritannico che si disputò fino alla Prima Guerra Mondiale fu a tutti gli effetti il campionato del mondo, per i sudditi di Sua Maestà. L’Imperial Stadium di Wembley fu inaugurato nel 1923, più o meno all’epoca in cui la FA uscì dalla federazione internazionale, giudicandola troppo controllata dai francesi. L’Inghilterra si sarebbe tenuta alla larga dalle competizioni internazionali fino al 1946, dopo un’altra guerra mondiale. Fino ad allora, ai suoi supporters bastava ed era sufficiente il titolo di maestri del calcio. Un titolo che teneva conto sicuramente della storia, ma sempre meno di una attualità che era in divenire anche nel calcio stesso, dove emergevano entità nuove e sempre meno rispettose dei padri fondatori del gioco.
La federazione italiana si era costituita nel 1910. Aveva esordito con una scoppola assestata ai cugini francesi, chiarendo subito che le sue ambizioni erano quelle di arrivare ad un predominio continentale. Il fascismo volle promuovere per motivi di propaganda lo sport azzurro (termine derivato dal colore che la Casa Savoia aggiungeva al bianco, rosso e verde della bandiera) a tutti i livelli. Il calcio si stava affermando già allora come lo sport più popolare del mondo, e non poteva sfuggire a questa logica.
Ottenuti i mondiali del 1934, che poi avrebbe vinto pur con qualche polemica soprattutto da parte spagnola, l’Italia non ottenne la partecipazione più prestigiosa, quella appunto degli inglesi, con i quali tra l’altro si stava delineando (grazie alle mire espansionistiche del regime di Mussolini) una situazione di sempre più crescente rivalità, per quanto rivestita di apparente amicizia.
I maestri non vennero in Italia, non si abbassarono a mettere in gioco il loro titolo prestigioso. Campioni lo divennero gli italiani, e da quel momento, complici anche tante altre circostanze sul piano più della politica che dello sport, sarebbe cominciata la storia di una delle rivalità più accese della storia del calcio.
La prima storica amichevole era stata disputata tra le due nazionali nel 1933, ed era finita 1-1 allo Stadio Flaminio di Roma. Gli italiani resero la visita nel novembre del 1934, cinque mesi dopo aver conquistato la prima stella mondiale. Si giocò ad Highbury, nello stadio dell’Arsenal che da allora per i tifosi italiani è parificato al sacrario di Redipuglia. Sotto di tre gol e ridotti in dieci quasi subito, i ragazzi di Vittorio Pozzo strinsero i denti come fossero alpini e limitarono i danni fino al 3-2 finale per i padroni di casa. Ciò valse loro, complice anche e soprattutto la retorica fascista, l’appellativo sempiterno di leoni di Highbury.
Gli inglesi non parteciparono ai mondiali del 1938, lasciando via libera agli italiani per la seconda vittoria consecutiva. L’anno dopo, a San Siro, fu di nuovo pareggio, 2 – 2. Dopo di che, purtroppo, la volta successiva Inghilterra e Italia si sarebbero affrontate su di un campo di battaglia ben diverso.
Nel 1948, un’Inghilterra uscita vittoriosa dalla seconda guerra mondiale ma ridotta in macerie quasi quanto l’Italia che l’aveva persa, rese visita agli ex nemici mandando la sua selezione ad infliggere loro una delle sconfitte più brucianti della loro storia calcistica. Malgrado gli azzurri in pratica fossero il Grande Torino travasato in Nazionale, dall’altra parte c’erano fior di campioni, come quel Mortensen che brevettò il più straordinario dei gol, segnato tirando ad effetto dalla linea di fondo. Soprattutto, c’era una comprensibile acredine verso chi aveva partecipato al blitz nazista su Londra. L’amicizia sarebbe ritornata, con il tempo, ma non era quello il momento.
2-0 ancora per loro nel 1949 a Londra, nello stadio del Tottenham a White Hart Lane (la capitale inglese già allora aveva un numero di squadre, e di impianti sportivi, sufficienti ad allestire da sola un discreto campionato). L’anno dopo gli inglesi, rientrati nella federazione internazionale, acconsentirono a partecipare ai mondiali in Brasile, dove rimediarono una sconfitta ignominiosa contro gli U.S.A., dai quali il calcio era considerato poco più che un passatempo da femminucce.
Eliminati al primo turno loro e noi, ex maestri ed ex campioni si ritrovarono nel 1952 a Firenze, e fu 1 – 1. Gli italiani cominciavano ad accusare il tabù inglese, sembrava che di tutte le rappresentative affrontate nei quaranta e più anni di esistenza, per la Nazionale italiana quella inglese fosse decisamente imbattibile.
Erano gli anni in cui l’Italia sperimentava gli oriundi in nazionale, e l’Inghilterra constatava la fine di un’epoca subendo un ignominioso 6 – 3 dalla Grande Ungheria all’inaugurazione del nuovo Wembley. Ci si rincontrò di nuovo proprio nel restaurato Stadio Imperiale nel 1959, e fu un 2 – 2. E poi nel 1961, all’Olimpico di Roma appena costruito per le Olimpiadi andate in scena l’anno precedente nella capitale italiana. Anche in quella circostanza disse male ai padroni di casa, gli inglesi vinsero 2 – 3. Dopodiché iniziarono la marcia di avvicinamento al loro mondiale casalingo del 1966, l’unica loro vittoria a tutt’oggi. Il mondiale in cui l’Italia conobbe per parte sua una delle più vergognose eliminazioni, quella subita dalla Corea del nord con gol del dentista Pak Doo Ik.
Per ben dieci anni, bianchi d’Inghilterra e azzurri d’Italia non si incontrarono più. Nel frattempo la golden generation di Alf Ramsey viveva un dorato e prestigioso crepuscolo (ai mondiali del Messico si fecero rimontare dai tedeschi dell’ovest nella rivincita di quattro anni prima, agli Europei di Roma chiusero in semifinale, eliminati dalla Jugoslavia che poi avrebbe dato filo da torcere anche agli italiani).
La nuova generazione azzurra invece cresceva, all’ombra della saggezza calcistica di Ferruccio Valcareggi. In Messico, dove si presentavano da campioni d’Europa, Riva, Rivera & c. andarono vicini a far piangere Pelé e tutto il Brasile dopo averci costretto i tedeschi al termine della partita del secolo.
Tre anni dopo, nell’imminenza dell’edizione successiva dei mondiali da disputarsi in Germania, la squadra azzurra si presentava sulla carta ancora più forte, impreziosita dall’imbattibilità della porta di Dino Zoff che sarebbe durata oltre i mille minuti e da una condizione di forma che purtroppo aveva due soli difetti: giungeva con un anno di anticipo, e non teneva contro della rivoluzione del calcio totale in atto nel Nord Europa.
Quando si ritrovarono finalmente a Torino nel giugno del 1973, italiani e inglesi potevano illudersi di essere ancora nel loro momento di gloria. La gloria in realtà stava passando, come tutte le cose del mondo. Gli inglesi avrebbero sbattuto contro i polacchi di saracinesca Tomaszewski e sarebbero rimasti a casa a vedersi i mondiali in TV. Gli italiani avrebbero sbattuto contro gli stessi polacchi nel girone di primo turno in Germania, rimediando una rapida eliminazione che in realtà era un fatto epocale.
A Torino, un gol di Anastasi e uno di Capello valsero almeno a sfatare l’ultimo dei tabù che il calcio italiano si portava addosso. Loro non erano più maestri, noi non eravamo più campioni (anche se ci illudevamo di essere vicini a tornare ad esserlo), ma finalmente li avevamo battuti.
A novembre, come usava allora, rendemmo visita a nostra volta. A Wembley, bianchi e azzurri disputarono una partita spigolosa e robusta, che sembrava destinata allo 0-0. Ma Giorgio Chinaglia era uno che non si accontentava facilmente, e a cui il passato di emigrante in Galles acuiva il sentimento antibritannico che lo spinse probabilmente negli ultimi minuti del match a racimolare le ultime energie ed a lanciarsi in un affondo sulla destra che sorprese la difesa inglese. Palla al centro per l’accorrente Capello, che imitando il Rivera dell’Azteca toccò di giustezza spiazzando il portiere Shilton.
Non crediamo di esagerare dicendo che vincere a Wembley fu per l’Italia non soltanto pallonara un passo decisivo verso una rinascita nazionale che ancora non era stata completata, dai primi anni del dopoguerra. Mancava ancora qualcosa: vendicare Highbury e Mortensen, prendersi una rivincita da tante amarezze inferteci dagli inglesi con quel sorrisetto alla David Niven sulle labbra, e soprattutto farlo nel modo giusto, da paese civile che affronta un altro paese civile sul campo di calcio, e non più su quello di battaglia.
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