Oggi sarebbe stato il suo compleanno, se la sua vita non fosse stata bruscamente interrotta a Dallas, Texas, a soli 46 anni, il 22 novembre 1963. Le Parche, opportunamente coadiuvate da tutta una serie di divinità minori ma su questa terra forse assai più potenti e sicuramente maldisposte verso tutti i valori che lui incarnava, recisero il filo della sua esistenza confidando che la colpa non sarebbe ricaduta su di loro, ma sull’improbabile e sprovveduto Lee Harvey Oswald, entrato con ogni probabilità in un gioco più grande di lui.
Earl Warren e la sua commissione appositamente costituita confermarono, Oliver Stone e Jim Garrison smentirono. Tra questi due estremi si è situata negli ultimi cinquant’anni un’opinione pubblica a mano a mano sempre più consapevole che a Dealey Plaza a Dallas non era stata stroncata soltanto la vita del più giovane presidente degli Stati Uniti d’America di sempre, il primo di religione non protestante, ma anche e soprattutto la coscienza pulita, l’idealismo, la voglia di cambiare il mondo credendo di poterci riuscire della generazione giovane che si strinse attorno a John Fitzgerald Kennedy durante la sua breve permanenza alla Casa Bianca e di tutte quelle a venire, non solo in America ma in tutto il mondo.
Sotto il nome fortemente evocativo di Nuova Frontiera, tra il 1960 ed il 1963 le migliori energie di un giovanissimo leader e di milioni di seguaci ancora più giovani sembrarono poter fornire nuovi valori fondanti, nuovi miti ad un paese che di miti positivi assurti a valori fondanti ne aveva già a bizzeffe, e che stava vivendo la sua Età dell’Oro, tanto da essere definita appunto il secolo americano.
Gli Stati Uniti avevano esaurito le frontiere fisiche da conquistare, con l’aggiunta all’Unione dell’ultimo stato, il cinquantesimo, le Hawaii, giusto un anno prima dell’elezione di Kennedy alla Casa Bianca. La Nuova Frontiera che il neo eletto presidente mise davanti al paese fin da subito fu una frontiera morale. Dimostrare alla generazione precedente, quella che aveva vinto la Seconda Guerra Mondiale e salvato il mondo dal Nazifascismo, che anche quella nuova faceva sul serio e aveva intenzione di andare ancora più avanti, sulla strada della libertà e del benessere. Dimostrare al Blocco Comunista, che rappresentava il nuovo pericolo negli anni della Guerra Fredda, che i valori dell’Occidente erano superiori.
Non chiederti cosa può fare per te il tuo paese, ma cosa puoi fare tu per esso, fu il motto di quella Nuova Frontiera, di quei 1000 giorni alla Casa Bianca (come li definì lo storico Arthur Schlesinger jr., suo braccio destro e autore di molti dei suoi discorsi più celebri per i quali si ispirava nientemeno che all’italiano Gaetano Salvemini), di quell’epoca che appariva talmente felice – dopo gli anni bui dello scontro mortale tra i Blocchi e della caccia alle streghe di McCarthy – da far paragonare la Casa Bianca stessa a Camelot e la presidenza Kennedy al regno di re Artu.
JFK era stato un eroe di guerra, arruolatosi subito dopo Pearl Harbor nonostante la lesione alla colonna vertebrale riportata ad Harvard negli anni universitari durante una partita di football. Il figlio dell’immigrato irlandese – che non aveva nascosto le sue simpatie filonaziste e ancestralmente anti-britanniche – fece il suo dovere in pieno, distinguendosi come sottotenente di vascello al comando della motosilurante PT-109. Silurato al largo della Nuova Georgia, nelle Salomone, si comportò da eroe portando in salvo il relitto con aggrappati i superstiti del suo equipaggio, e nuotando per oltre dieci miglia attraverso gli incrociatori giapponesi e gli squali per chiedere soccorsi. Insignito della Navy and Marine Gold Medal, la prima di una serie di onorificenze, JFK era già diventato una figura leggendaria 18 anni prima della sua candidatura a presidente.
Con il fratello maggiore Joe meno fortunato di lui e deceduto nel conflitto, toccò a lui incarnare le speranze del padre di accreditare la famiglia ai più alti livelli della high society politica e civile nordamericana, intraprendendo una carriera politica lampo. Prima senatore per il Massachussets, dove i Kennedy risiedevano fin dal loro sbarco in America provenienti dall’Irlanda, poi – quando si trattò di eleggere il successore di Dwight D. Eisenhower – in corsa per i democratici contro Richard Nixon, vicepresidente in carica e candidato dell’establishment politico-militare.
Quella del 1960 fu un’elezione combattutissima, decisa sul filo di lana. Il confronto televisivo Kennedy – Nixon segnò l’inizio della moderna democrazia mediatica. Fin dal discorso iniziale d’investitura, JFK chiarì che non sarebbe stata una presidenza qualsiasi quella trentacinquesima per cui stava prestando giuramento.
Nei tre anni successivi, cercò di portare gli Stati Uniti ed il mondo fuori dal pantano irrisolto dalla Seconda Guerra Mondiale e da problemi ben più annosi. Vincere la Guerra Fredda e la Corsa allo Spazio, evitare l’escalation in Vietnam e nelle altre zone calde del mondo, accompagnare le marce e le richieste di diritti civili delle minoranze afroamericane verso uno sbocco democratico e non violento furono solo alcune delle imprese titaniche in cui si impegnò il giovane presidente, sostenuto dalla famiglia (malgrado forse il padre non si sarebbe aspettato un simile commitment, impegno a favore delle classi meno abbienti) e dalle giovani leve che si affacciavano in tutto il mondo occidentale alla politica ed alla vita civile.
Davanti a lui, nemici potenti si allineavano. Il governo in senso lato della politica e dell’economia statunitensi, l’establishment, credeva nella Guerra Fredda da vincere con le cattive piuttosto che con il buon esempio mostrato a Berlino di fronte al Muro o con la saldezza di nervi e la prudenza mostrate nella Crisi dei Missili di Cuba. Credeva nel Vietnam da affidare in gestione al generale Westmoreland, nella riconquista sanguinosa di Cuba. Per questi poteri forti, fortissimi, la Mafia era spesso un alleato di fatto, piuttosto che il pericolo pubblico n. 1, il bersaglio legittimo dell’azione del Ministero della Giustizia retto dal fratello Bobby. I negri e le loro rivendicazioni facevano parte di un mondo di cui vedevano l’alba come il fumo negli occhi.
Nell’estate del 1963, l’energia negativa evocata contro di sé dalla Nuova Frontiera si stava materializzando e saldando in una convergenza, se non in un’alleanza oscura per cui tutte le strade portavano a Dallas.
Gli spari nella Dealey Plaza risuonarono secchi e spietati, tremendi, per riportare un intero pianeta alla realtà. Non ci sarebbe stata nessuna rivoluzione pacifica, qualsiasi frontiera avessero davanti gli Stati Uniti non era nuova, ma piuttosto di quelle da conquistare, soggiogare alla vecchia maniera: con il Winchester, lo Sharps, la Colt, il Bowie Knife. I discorsi sarebbero stati quelli dei predicatori del West, la Bibbia in una mano, il fucile nell’altra.
Cuba sarebbe stata chiusa da un embargo destinato a durare 50 anni, il Vietnam sarebbe precipitato in una guerra civile destinata a dilaniare le coscienze – oltre che i corpi di giovani vietnamiti ed americani – per oltre dieci anni, con strascichi morali a più lunga scadenza.
La Mafia sarebbe rimasta in circolo come veleno nel sangue della nazione statunitense, travasato dalla vecchia Europa e destinato a durare quanto in essa. I neri avrebbero dovuto conquistarsi a caro prezzo i loro riconoscimenti di libertà, attraverso i tributi di sangue dei marciatori, e di leader come Malcom X e Martin Luther King, passando poi la mano alle Black Panthers di Angela Davis ed al contro-razzismo dei ghetti. Obama era ben di là da venire.
A Dallas le Parche tagliarono il filo della vita di JFK al quarantaseiesimo giro di gomitolo. Ma non solo quello. Il mondo perse la sua innocenza, gli U.S.A. la loro faccia di salvatori, i giovani la loro fede nel progressismo. Il cervello del presidente era esploso sotto i colpi degli assassini, spargendosi sulla limousine e sul vestito rosa della moglie Jacqueline Bouvier, la First Lady.
Il cervello di chi era al mondo e con l’uso di ragione quel 22 novembre 1963 alle ore 12,30 ora di Dallas fu traumatizzato per sempre. Alle generazioni successive, nate dopo che il texano Lyndon Johnson aveva già prestato giuramento sulla bara del presidente assassinato, nessuno avrebbe più parlato di Nuove Frontiere, o di Camelot.
Le illusioni migliori di una giovane nazione precocemente invecchiata si erano consumate tutte tra Brookline, il sobborgo di Boston dove JFK era nato il 29 maggio 1917, ed il Cimitero Nazionale di Arlington, dove riposa la sua salma accanto a quelle degli eroi americani di ogni epoca e dove, dal 1994, è andata a raggiungerlo Jacqueline, la First Lady che con gesto disperato tentò di tenere assieme la sua testa e le nostre speranze, su quella limousine scoperta e sotto quegli spari che a Dealey Plaza fermarono il tempo per sempre.
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