No, non stava babbiando. Faceva sul serio. Arriva un tempo in cui, come scriveva Tolkien, diventiamo come burro spalmato su troppo pane. Ed è giusto che cali il sipario.
Comunista dichiarato, uomo di parte fino all’ultimo, come uomo di lettere aveva messo d’accordo tutti, facendosi se non amare almeno rispettare da tutti. Alle avventure di Montalbano ci siamo appassionati tutti, non solo quelli del PD, che speravano di sfruttarne il successo mettendolo a segretario di partito. Alle sue tragicomiche ricostruzioni di una Sicilia e di un’Italia di altri tempi ci siamo divertiti tutti, magari sorridendo amaramente. La concessione del telefono, ai nostri giorni, non è diventata più semplice da ottenere o da gestire di quanto non fosse a Vigata al tempo in cui la fantasia di Camilleri si sbizzarriva.
Alla RAI c’era entrato tardi, discriminato a suo dire proprio perché comunista. Nel frattempo, come regista di teatro si era cimentato con Pirandello, Beckett, Ionesco, Strindberg, Eliot, Majakovskji. Alla RAI aveva prodotto e contribuito a sceneggiare le grandi fiction dell’epoca, quelle con Ubaldo Lay nei panni del tenente Sheridan e quelle con Gino Cervi in quelli del Commissario Maigret.
Poi era arrivata la scrittura, la letteratura. Per quarant’anni Camilleri e Sellerio si sono fatti del bene a vicenda, e ne hanno fatto soprattutto a noi lettori. Dal Corso delle cose (1978), giallo pre-Montalbano, al Cuoco dell’Alcyon pubblicato pochi giorni fa, che di Montalbano dovrebbe chiudere la parabola, a meno che non salti fuori davvero l’ultimo libro inteso come postumo dallo stesso autore. Consegnato nel 2006 all’editore, da pubblicarsi dopo la sua scomparsa, perché: «Ho scritto la fine anni fa… ho trovato la soluzione che mi piaceva e l’ho scritta di getto, non si sa mai se poi arriva l’Alzheimer. Ecco, temendo l’Alzheimer ho preferito scrivere subito il finale.»
Una cosa è certa. A differenza del suo autore, Montalbano non passa a miglior vita. Non farà la fine di Sherlock Holmes, «cadendo in un burrone per poi ricomparire in altre forme».
Quarant’anni di letteratura che non ha eguali. Camilleri scriveva in siciliano, anzi in vigatese. Nella sua penna, il dialetto era diventato una lingua alternativa all’italiano. Negli ultimi anni non ci vedeva più, e dettava i suoi libri alla sua assistente Valentina Alferj, «l’unica che in vigatese sia in grado di scrivere.».
Quel vigatese chi aveva pazienza di immergersi nelle sue narrazioni finiva per capirlo benissimo, quasi come chi c’era nato in mezzo. Diventava una seconda lingua, e trasportava come un tappeto volante nell’universo dei colori, dei sapori, dei suoni siciliani che pervadevano ogni pagina.
La Sicilia di Camilleri era come un quadro di Van Gogh. Solo colori vivi, magicamente accostati. Solo sensazioni vivide, esaltazione dei cinque sensi come un pranzo da Enzo, una passiata sul molo per digerire e poi la cena a sorpresa, lasciata da Adelina nel forno. Una terra magica, abitata da gente magica e comprensibile solo a prezzo di un considerevole sforzo di cultura. Misteri e delitti comunque accettabili, come quelli di una pièce teatrale. Nessuna traccia, o quasi, di quella criminalità organizzata, di quella brutta, impronunciabile parola che definisce quella Cosa, che resta sempre comunque in sottofondo, percepita, accennata, ma mai compiutamente evocata. Nelle storie di Camilleri, la Sicilia è una tragedia greca, a volte una tragedia moderna. Ma sempre comunque respirabile, godibile come il profumo del mare e il sciauro di un primo piatto mangiato sempre al ristorante da Enzo (e dove se no?), seguito da un secondo di triglie e da dio solo sa che contorno.
Nelle storie di Camilleri c’é poco o nulla delle immagini evocate dal brano che vi proponiamo oggi, in questo giorno di mestizia per un altro gran pezzo della nostra cultura che se ne va. Ma in quelle storie c’é un forte sapore di Sicilia, come in questo brano. E per questo che ci permettiamo di accostarglielo, in quest’ultimo saluto al Maestro a cui auguriamo che la terra sia più lieve possibile. La terra di Sicilia, ovviamente.
Non siamo mai stati comunisti come Camilleri. Eppure l’abbiamo stimato e apprezzato come crediamo nessun comunista sia mai riuscito a fare.
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