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La banalità del bene

Giorgio Perlasca (Como, 31 gennaio 1910 – Padova, 15 agosto 1992)

Hannah Arendt aveva raccontato la banalità del male. La fredda, agghiacciante miscela di totale amoralità e capacità organizzativa (oggi si direbbe manageriale) con cui un uomo qualsiasi, un oscuro travet dell’amministrazione tedesca era riuscito a portare la cattiveria umana a vette mai raggiunte nella storia. L’Olocausto, la più mostruosa delle imprese umane era stata gestita anche come la più banale. Questione di razionalizzazione dei mezzi, di pianificazione, di numeri da raggiungere.

Adolf Eichmann era diventato un mostro inguardabile dopo la guerra, quando il Mossad israeliano era riuscito a catturarlo in Sudamerica e a portarlo a Gerusalemme dove sarebbe stato processato e giustiziato. Ma fino al 1945 era stato un ometto come tanti, un impiegatucolo come ce ne sono a bizzeffe, pieno di chissà quali risentimenti e vuoto di qualsiasi valore morale che non fosse quello di compiacere i superiori. Si era trovato nella condizione giusta per rendere banale il male, farne questione di cifre (a tanti zeri). Chissà quanti anche oggi farebbero altrettanto, si trovassero nelle condizioni adatte.

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Nel 1992 il giornalista Enrico Deaglio cambiò solo il sostantivo finale al titolo del suo libro, per raccontare una storia diametralmente opposta. Giorgio Perlasca era scomparso da poco, ed erano pochi quelli che avevano conosciuto la sua storia, al di là dei molti che gli dovevano la vita. Il 15 agosto 1992, quando le sue spoglie mortali dettero addio alla sua anima, il suo nome era scritto da tempo su una lapide commemorativa a Budapest, l’alberello con il suo nome era stato piantato da tempo nel vialetto dietro il Museo Yad Vashem di Gerusalemme, il suo nome era stato inserito da tempo tra quelli a cui lo Stato di Israele aveva conferito l’onorificenza di Giusto tra le Nazioni.

Fare il bene per Perlasca era stato altrettanto banale che per Eichmann fare il male. Era stato altrettanto facile che per Gino Bartali, del quale aveva condiviso il motto: il bene si fa ma non si dice, e le medaglie ci si appuntano sull’anima, non sul petto.

Luca Zingaretti è Perlasca nello sceneggiato di Alberto Negrin "Un eroe italiano" del 2002

Luca Zingaretti è Perlasca nello sceneggiato di Alberto Negrin “Un eroe italiano” del 2002

Eppure, la banalità del bene, per compiersi, non aveva avuto nulla di banale. Come tanti, Giorgio Perlasca era stato fascista in gioventù, al punto da partecipare come volontario alla Guerra di Spagna nelle Brigate inviate da Mussolini in sostegno di Franco. Come tanti, si era distaccato dal Fascismo nel 1938, quando le leggi razziali e l’alleanza con la Germania nazista avevano portato alla luce un volto nuovo del Regime, facendo affiorare e prevalere un idealismo livido, cupo, che non era più quello che aveva – a torto o a ragione – animato la gioventù di tanti italiani.

Come tanti, si era trovato colto di sorpresa dalla dichiarazione di guerra del 1940, mentre era a giro per l’Europa come rappresentante di una ditta triestina di importazione bovini.

Come tanti, aveva finito per trovarsi nel posto giusto al momento sbagliato, e aveva dovuto decidere in un batter d’occhio se fare il bene o il male. Giorgio Perlasca non aveva avuto dubbi.

Enrico Deaglio

Enrico Deaglio

Si trovava a Budapest nel 1944, allorché il locale Partito delle Croci Frecciate, alleato a quello tedesco della Croce Uncinata, aveva scatenato una caccia all’ebreo che faceva impallidire per efferatezza quella a suo tempo condotta in Germania. Perlasca si era rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò, ed era ricercato dai tedeschi. Ma aveva con sé un salvacondotto rilasciatogli dal governo spagnolo franchista in segno di gratitudine per la partecipazione alla guerra civile di quel paese, e aveva trovato rifugio nell’ambasciata spagnola. Fu lì che ebbe l’intuizione di fingersi console generale di Spagna (d’accordo con l’ambasciatore Angel Sanz Briz) e una volta divenuto Jorge Perlasca dedicarsi poi a salvare quante più vite possibili di ebrei e oppositori del regime.

L'albero "Perlasca" al Yad Vashem di Gerusalemme

L’albero “Perlasca” al Yad Vashem di Gerusalemme

Il commerciante di bestiame Jorge a fine guerra avrebbe salvato più di 8.000 ebrei mediante il rilascio di falsi salvacondotti ed altri stratagemmi, nascondendoli un po’ ovunque (in collaborazione con l’ambasciatore svedese Raoul Wallemberg e con il Nunzio Apostolico Angelo Rotta) e salvandoli dai campi di concentramento. Un’impresa per niente banale, se si pensa che il pur meritevole Oskar Schindler con la sua lista aveva ottenuto di risparmiare circa 1.300 ebrei del ghetto di Cracovia.

Ma i numeri non contano, come dice il Talmud basta salvare anche solo una vita per salvare il mondo intero. Quando l’Armata Rossa arrivò a Budapest, Perlasca dovette pensare a quel punto a salvare la propria, perché adesso erano i russi a cercarlo in quanto ex fascista. Nel dopoguerra, la repubblica italiana non gli concesse alcuna onorificenza o riconoscimento, anzi ignorò sistematicamente i memoriali che lui aveva indirizzato al nuovo governo italiano per spiegare cosa aveva fatto e perché. Alcide De Gasperi in particolare scrisse una delle sue pagine personali peggiori ignorandolo completamente, proprio lui che aveva avallato l’amnistia generale ai fascisti proposta dal ministro guardasigilli Togliatti nel 1946.

Giorgio Perlasca con il presidente Francesco Cossiga

Le ragioni di nuove parti in causa surclassavano ormai quelle delle vecchie. A chi combatteva la guerra fredda interessava poco o nulla il destino e i meriti di chi aveva combattuto la guerra mondiale. La vicenda di Perlasca apparve sulla stampa nel 1961, ed ebbe poca risonanza. C’erano ancora troppi scheletri negli armadi degli italiani perché quelle vecchie storie di ebrei, fascisti e antifascisti appassionassero l’opinione pubblica. Diversa fu la storia nel 1980, quando Giorgio Perlasca – che fino a quel momento si era rifiutato di spedire il suo memoriale ad altri che non fosse l’autorità competente italiana – ebbe un ictus e acconsentì a che la famiglia diffondesse i documenti attestanti la sua storia. Gli ebrei sopravvissuti grazie a lui cominciarono a farsi avanti con le loro testimonianze, la verità venne a galla e lui poté prendere il suo posto di Giusto tra le Nazioni. Il governo italiano gli conferì l’onorificenza di Grande Ufficiale nel 1991, pochi mesi prima della sua scomparsa. Il suo memoriale, a seguito del libro di Deaglio, era diventato un libro a sua volta, dal titolo L’impostore.

Gianni Minoli

Gianni Minoli

Giovanni Minoli, che in quegli anni era uno dei pochi a raccontare nella sua trasmissione Mixer le storie più scomode, quelle che nessuno voleva raccontare, commentò così la sua figura: «Oggi è un eroe nazionale e un fiore all’occhiello per tutti. Ma è anche un po’ martire, per via del silenzio in cui ha vissuto. […] È stato anche faticoso farglielo raccontare, non si era mai sentito preso sul serio, aveva interiorizzato la tragedia, era troppo grossa da raccontare l’impresa, un po’ come dire “ho visto i marziani”, e lui li aveva visti davvero. […] La sensazione è che l’enormità dell’azione ha vissuto con la sua progressiva ritrosia a raccontarla perché erano troppo forti i silenzi culturali e politici, e questo insieme di cose lo ha fatto andare sotto traccia. Con Perlasca il conto non tornava: un ex fascista era stato un eroe vero nella salvezza degli ebrei.»

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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