Di nuovo la memoria in gioco. Stavolta spalla a spalla con l’attualità, come un attaccante ed un terzino che si disputano il pallone decisivo, di un match che in realtà è destinato a non avere mai fine. Non c’é un arbitro, ed anche se ci fosse non avrebbe né il cronometro né il fischietto. Se l’avesse, come la campana di John Donne risuonerebbe per tutti, e non omologherebbe come vincitore nessuno.
Settantanove anni fa alle prime luci dell’alba l’Armata Rossa che stava ricacciando indietro la Wehrmacht nazista entrava nel campo di prigionia di Oswiecim (in tedesco Auschwitz – Birkenau, il nome con cui è diventato famoso nei secoli dei secoli e con cui gelerà il sangue a tante generazioni a venire, finché studieranno la storia.
Quello che trovò andava al di là di ogni possibile immaginazione. Se questo è un uomo, avrebbe scritto uno dei superstiti più famosi di quel campo. Non, non lo era. Non più. Né la vittima ridotta ad una larva, né il carceriere che aveva organizzato quell’orrore come se si trattasse di una qualsiasi catena di produzione dell’industria bellica del Reich.
La banalità del male, avrebbe scritto Hannah Arendt raccontando di colui che più di ogni altro gerarca – manager aveva dato forma a quella soluzione finale proposta a Hitler e che Hitler aveva approvato entusiasta: la soluzione del problema ebraico che stava all’origine di tutto ciò che il Fuhrer aveva fatto o provocato: dal Mein Kampf alla guerra mondiale.
Di orrori la razza umana ne ha prodotti tanti lungo la sua storia. In epoca moderna, non ne parliamo. Scienza e tecnologia cambiano le condizioni di vita del genere umano, ma anche quelle che possono determinarne la morte. Il Kaiser Guglielmo di zyklon B ne aveva in quantità limitata, e dovette accontentarsi di farlo gettare sulle trincee alleate. Il Fuhrer, grazie ad una industrializzazione forzata che doveva portare alla rivincita, ne aveva in quantità – appunto – industriale. E poté usarlo per liberare posti nei campi di concentramento, seguendo la programmazione della più atroce catena di montaggio della storia.
La più atroce, ma non certo l’unica. La principale obiezione alla celebrazione della Giornata della Memoria è a tutt’oggi: perché solo gli ebrei? Le altre vittime non contano?
Contano, eccome. L’Olocausto fa rabbrividire, proprio per quella sistematicità, quell’efficienza germanica, quella presunta esattezza, quella banalità con cui fu organizzato e portato quasi fino in fondo. Sei milioni di ebrei, due terzi della popolazione ebraica d’Europa, cifre importanti a corredo di testimonianze agghiaccianti. Ma ha senso paragonarle a quelle di altri massacri, di altri genocidi? Stabilire classifiche di merito?
Forse non più. A quei sei milioni se ne sono aggiunti talmente tanti altri che o si tiene desta la Memoria per tutti oppure non ha più senso farlo per nessuno. Continuiamo a mandare i nostri ragazzi sui Treni della Memoria diretti in Polonia, è pur sempre più salutare che lasciarli salire sui treni e sui pullman che vanno a combattere la guerra del calcio. O dedicarsi ad altre sciocchezze.
Ma aggiorniamo la mappa dell’orrore. Dal 1945, dalla liberazione di Auschwitz Birkenau di luoghi maledetti e di ricorrenze che gelano il sangue al solo pensiero se ne sono aggiunti parecchi. Teniamo conto di tutti, appuntiamoceli in questa nostra Memoria che si riaccende soltanto una volta l’anno, per poche ore durante qualche cerimonia pubblica, e sempre con maggio fastidio collettivo.
E accostiamoci alla realtà attuale con senso di responsabilità. A Gaza si muore come si moriva a Varsavia ottant’anni fa. Qualcuno dice che le vittime di ieri sono diventate i nazisti di oggi. C’è molto antisemitismo in giro, così come c’era un secolo fa, all’epoca in cui il Mein Kampf fu dato alle stampe.
C’è anche molta sottovalutazione della psicosi che comprensibilmente attanaglia una popolazione – quella israeliana – che forse, al pari dei palestinesi, vorrebbe ormai poter chiudere un ciclo storico atroce e dedicarsi ad un a nuova esistenza di pace. Israele vive nella preoccupazione che i suoi vicini le saltino alla gola. L’Islam che la circonda vive nella preoccupazione che Israele continui ad esistere.
Dei bambini che rimangono a terra ogni giorno frega poco a tutti, o quasi. E’ solo un fastidio che sopportiamo ogni sera che dio mette in terra da sessant’anni a questa parte, ogni volta che accendiamo la televisione. Per far smettere questo fastidio non servono i discorsi, per di più strumentali a ideologie e credenze restie a cedere il passo. Serve qualcosa che non c’é più, se mai c’é stato.
Le Nazioni Unite, istitutrici di questa Giornata della Memoria, avrebbero in teoria il potere e le risorse per interporsi tra i due contendenti e costringerli una buona volta a più miti e definitivi consigli. In fondo, a suo tempo siamo stati in grado di far ragionare gli jugoslavi, pensate un po’. Ma le Nazioni Unite non esistono più. Esistono gli USA, sempre più incartati nella politica ipocrita ed ineffettiva dell’amministrazione Biden, e la Russia, che ha ormai deciso di pensare ai propri interessi, da sola, come ha sempre fatto, diffidando di chiunque altro. Quanto alla Cina, è già tanto se non sghignazza apertamente sulle nostre facce stando a guardare le mille difficoltà in cui si dibatte e agonizza il cosiddetto mondo occidentale.
Si può paragonare Netanhyau a Hitler, serve a poco ed alimenta ulteriori errori che dalla prospettiva storica passano direttamente alla azione politica del momento. La verità è che la gente, tutta la gente, non ha ancora imparato a vivere in pace, rispettando anche la pace altrui. Non è, e chissà se sarà mai, un sentimento che alberga nell’animo umano.
La Giornata della Memoria ormai dovrebbe servire alla consapevolezza di questo. Altrimenti, con buona pace di vecchie e nuove vittime della banalità dell’orrore, non serve più a nulla.
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