Politica

La battaglia di Firenze e la fine del buonismo

FIRENZE – Tra la battaglia notturna di Santa Maria Novella e gli sputi del giorno dopo a Dario Nardella si consumano le illusioni più o meno in buona fede del buonismo radical chic di una sinistra uscita con le ossa rotte dalle elezioni (anche se Firenze si è confermata la Stalingrado del PD) nonché la voglia di menar le mani e di buttarla in caciara degli antagonisti dei centri sociali, che avevano trovato neanche tanto occasionalmente una comunanza di interessi e di intenti nell’ultima campagna elettorale.

L’uccisione del migrante senegalese Idy Diene da parte del pensionato italiano Roberto Pirrone, avvenuta sul Ponte Amerigo Vespucci nel capoluogo toscano a due passi dal consolato americano, è un evento drammatico che piacerebbe a tanti di poter strumentalizzare secondo consuetudine, ma che invece finisce per portare allo scoperto una serie di bluff e per dimostrare nello stesso tempo che a poche ore dalla chiusura delle urne il vento è già cambiato.

La vicenda stessa della vittima è sintomatica di questo cambiamento, da quel 2011 in cui il migrante salì alla ribalta nelle manifestazioni di cordoglio cittadino seguite all’omicidio di due suoi connazionali da parte dell’estremista di destra Gianluca Casseri a Piazza Dalmazia. Allora il sindaco Matteo Renzi ebbe buon gioco a trasformare l’evento in uno spot per il buonismo integralista a metà strada tra la vecchia politica della città aperta lapiriana e l’avvio della trasformazione di Firenze in un pentolone multietnico ingovernabile e invivibile che aveva preso il via con il suo predecessore Domenici e che proprio con il futuro rottamatore avrebbe conosciuto il suo boom.

Stavolta non c’é tempo per cordoglio e commemorazione. La situazione viene presa subito in mano dalla comunità dei senegalesi, che mette a ferro e fuoco il centro di Firenze per tutto il pomeriggio fino al dopocena, trasformando il capoluogo toscano in una piccola Los Angeles, in una Soweto, in una Brixton londinese, una banlieue parigina. In uno qualsiasi dei luoghi dove la rabbia – giusta o sbagliata – dei neri ha trovato la sua valvola di sfogo nel corso dei decenni e delle tensioni razziali progressivamente portate ad ebollizione dall’indifferenza e/o dall’interesse dei rispettivi governi.

Il giorno dopo l’omicidio di Diene, al presidio congiunto dei senegalesi assieme agli antagonisti dei centri sociali presso il luogo dove esso è avvenuto, a Ponte Vespucci, è il momento del sindaco Nardella raccogliere il frutto della politica dissennata del suo partito. Lo sputo che lo centra è diretto non casualmente (per quanto da un antagonista consapevole forse soltanto del proprio ribellismo indiscriminato) all’ultimo epigono di La Pira. A chi ha fatto di questa città un enorme centro di accoglienza. A chi ha reso il centro di Firenze, di giorno e di notte, un luogo mal frequentato e poco raccomandabile.

Lo sputo, paradossalmente, è diretto a quel partito democratico che fino all’ultimo in campagna elettorale ha tentato di riversare appunto sputi e insulti sulla parte avversa, accusata di razzismo e xenofobia. E non ha saputo mantenere le promesse fatte a chi, bianco o nero che fosse, voleva continuare a mantenere in vita l’equivoco di una immigrazione che giustamente la Lega vincitrice di Salvini ha definito una invasione, interpretando il sentimento della gente comune come dimostra la mappa del consenso elettorale.

Lo sputo a Nardella e gli sfregi della sera prima al centro di Firenze mettono peraltro di fronte alla crisi tutta la popolazione, anche quella che non ha nessuna simpatia per lo stesso Nardella, che è pur sempre il sindaco e l’istituzione più rappresentativa di Firenze, e per il suo partito. Lo sputo è diretto a Firenze, agli italiani. A chi si è illuso di essere buono, accogliente, civile. E ha soltanto aperto le porte di un pollaio a volpi feroci, mentre progressivamente i cani da guardia venivano ridotti, disarmati, messi in condizione di non poter più fare il loro mestiere essenziale.

E’ tempo di slegare le mani alle forze dell’ordine, rendere loro condizioni di efficienza operativa e onore civile, lasciare che facciano quello che devono e sanno fare per riportare lo stato di diritto e la civiltà nelle nostre strade.

E’ tempo che gli squilibrati che girano armati vengano intercettati per tempo, quando possibile, così come le orde di risorse etniche che pensano di poter stabilirsi qui senza nessuna regola vengano informate che se questo è il loro intento possono e devono restare a casa propria. Con buona pace, tra gli altri, del Capo dello Stato Vaticano che la pensa diversamente, salvo evitare accuratamente di tradurre il suo pensiero in politica concreta nel territorio di propria stretta competenza.

E’ tempo che l’Italia, a cominciare da Firenze (una delle capitali della nostra industria principale, se non l’unica: il turismo, la quale dovrebbe essere tenuta dalle autorità come un salotto buono, non come un suk o una discarica a cielo aperto), torni ad essere la patria del diritto, non il luogo disgraziato di continui rovesci.

La Lega che elegge Tony Iwobi il primo senatore di colore della storia d’Italia (con l’ineffabile Mario Balotelli che non perde l’ennesima occasione per dimostrare la sua pochezza umana e intellettuale scagliandosi contro di lui: «non glielo hanno spiegato che è nero?») non ha seminato odio, ma buon senso. E quell’Attilio Fontana neo governatore della Lombardia che parlava di rapporti di convivenza tra le razze, non aveva fatto propaganda all’arianesimo di Alfred Rosenberg ma piuttosto ad un programma di minima convivenza che è patrimonio di tutte le nazioni più civili della terra, a cominciare da quelle di tradizionale democrazia anglosassone.

Probabilmente gli scontri razziali ed antagonisti non corrispondono altro che ad una fase successiva del disegno di destabilizzazione di cui il nostro paese è stato fatto oggetto nell’ultimo decennio, che siano consapevolmente strumentalizzati o meno. Crediamo di non dire nulla di strano allora se auspichiamo che chi ha a cuore la salvezza del proprio paese e del proprio modus vivendi, del proprio popolo e della propria cultura, in una parola della propria civiltà, non possa aspettarsi dal presidente della repubblica altro che l’incarico a chi ha promesso di riportare legge e ordine nelle nostre strade e nelle nostre case.

Crediamo di non dire nulla di strano se auspichiamo che il prossimo sindaco di Firenze assomigli più a Rudolph Giuliani che a Giorgio La Pira. Per chi crede a certe favole o coltiva certi interessi c’é pur sempre Capalbio. O i ghetti di Los Angeles.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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