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La fine della perestrojka

Il 19 agosto 1991 Michail Sergeevič Gorbačëv, segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, venne messo agli arresti domiciliari nella dacia presidenziale in Crimea dove aveva trascorso un periodo di vacanza.

Quella mattina era atteso a Mosca dove avrebbe dovuto apporre la firma sulla riforma della Costituzione in senso maggiormente federativo e libertario, con numerose innovazioni democratiche prodotte dalla cosiddetta perestrojka. Riforme avversate sia dai liberali di Boris Eltsin – che volevano la messa in discussione della permanenza del PCUS alla guida dell’URSS – che dai vetero-comunisti. I quali quella mattina del 19 passarono all’azione, arrestandolo e mandando una volta di più i carri armati per le strade.

Fu l’inizio del colpo di stato che per tre giorni rischiò di riportare l’URSS indietro nel tempo, quantomeno ai tempi di Breznev. Il golpe fu sventato da Eltsin e dalla sollevazione di piazza del popolo russo e delle altre repubbliche sovietiche, ed il suo fallimento portò rapidamente alla dissoluzione della stessa URSS ed alla fine del regime comunista, giudicato da Eltsin non riformabile.

Il nuovo presidente – della federazione prima e della nuova repubblica russa autonoma poi – dette la colpa del fallito golpe allo stesso Gorbačëv, responsabile a suo dire del precipitare della situazione a causa delle sue stesse indecisioni.

Il 25 dicembre di quello stesso anno Gorbačëv rassegnò le dimissioni da segretario. Il giorno dopo, come da accordi tra le vecchie repubbliche federate, cessarono di esistere sia l’Unione Sovietica che il PCUS.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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