Ombre Rosse

La fine della Repubblica

Manifestazione del Centrodestra a Piazza del Popolo

E anche quest’anno, festeggeremo l’anno prossimo. Il 2 giugno va in archivio come l’ennesima occasione persa dalla Repubblica nata dalla Resistenza al Fascismo per entrare nei nostri cuori di italiani. Che a nostra volta abbiamo perso l’ennesima occasione per sentirci un popolo unito da alcuni valori fondanti.

Non c’é nente da fare, il referendum Monarchia-Repubblica per noi non è la Presa della Bastiglia francese, o la Dichiarazione di Indipendenza americana. E’ piuttosto il Giorno del Nostro Scontento, perché tutti abbiamo qualcosa da recriminare, non appena il sole tramonta sull’Altare della Patria, le ultime scie delle Frecce Tricolori si disperdono, gli ultimi festanti o manifestanti rimontano sui pullman per tornare a casa.

Vittorio Emanuele III

In comune, come popolo, abbiamo poco. Quest’anno meno che mai. Avevamo più da spartire settantaquattro anni fa. Si tornava a votare per la prima volta da 22 anni per qualcosa di veramente importante (il voto amministrativo di febbraio era stato più che altro l’occasione per le donne di prendere confidenza con quel nuovo diritto, l’elettorato attivo e passivo, concesso loro dal Luogotenente del Regno Umberto di Savoia e dalle forze politiche del CLN per quel misto di buone intenzioni e di opportunismo del momento che sarebbe poi confluito nella nuova Costituzione.

Il 2 giugno 1946 si votava per due cose, entrambe epocali: la forma di governo e la Costituente. La seconda si formò sulla base degli schieramenti politici, e dette l’idea da subito di cosa sarebbe stato il dopoguerra: una riproduzione in scala ridotta della Guerra Fredda che di lì a poco sarebbe scoppiata in tutto il mondo, terza guerra mondiale che non avremmo potuto combattere a causa di – o grazie a, col senno di poi – quell’ultimo ritrovato del genio umano a nome bomba atomica.

La prima era meno sostanziale ma più impattante: la scelta tra Monarchia e Repubblica. I Savoia avevano fatto l’Italia, secondo una retorica patriottarda che nel nostro paese ha da sempre sostituito un più sano, equilibrato e consapevole sentimento nazionale. Ma erano anche, a quel punto, la dinastia regnante più screditata d’Europa, se non del mondo.

Vittorio Emanuele III, con il suo lungo e controversissimo regno, aveva deciso da tempo il destino della sua famiglia e dell’istituzione che rappresentava. La sua acquiescenza, se non in pratica adesione, al Fascismo era figlia del trauma subito in occasione del compiersi del tragico destino del padre, Umberto I, ucciso a Monza dall’anarchico Gaetano Bresci come risposta all’encomio reale conferito al generale Bava Beccaris, che a Milano aveva aperto il fuoco sulla folla di civili che manifestava contro la tassa sul macinato, la miseria, la carestia.

Sergio Mattarella

Quando la folla tornò in piazza di nuovo, nel Biennio Rosso successivo alla Prima Guerra Mondiale, era forse inevitabile che il sovrano si rivolgesse istintivamente a chi gli prometteva di controllare quelle piazze meglio del suo stesso esercito. Che schierato a difesa non solo di Roma il 28 ottobre 1922 avrebbe potuto spazzare via le Camicie Nere con poca fatica, se l’ordine del Re non fosse stato piuttosto quelle di lasciarle passare. Per scortare il loro capo, Mussolini, a prendersi un incarico di governo destinato a durare ventun anni, con il surplus di due tragici, atroci supplementari tra il 1943 ed il 1945.

L’uomo che i suoi sudditi ormai chiamavano senza rispetto Sciaboletta (data la stazza fisica: per vestirlo in uniforme militare lo Stato Maggiore aveva dovuto acconsentire all’abbassamento dell’altezza minima del soldato italiano) avrebbe potuto limitarsi ad essere un re da operetta, una figura comica. Scelse di essere un re tragico, senza nemmeno quella grandezza nella tragedia tipica di un re Lear, un Riccardo III, un re di Danimarca come li aveva tratteggiati il maestro delle tragedie regali Shakespeare.

Era Sciaboletta che incarnava la Monarchia nel momento in cui in Italia si aprirono le urne dei seggi referendari, anche se aveva abdicato tardivamente in favore del figlio Umberto II. Del Risorgimento e dei meriti acquisiti verso la Patria e traslati nel Pantheon nessuno ricordava più nulla, il bagno di sangue della Guerra Civile era molto più recente. Quel sangue non si era ancora asciugato tra le macerie di un paese distrutto, con un futuro incerto e tanta voglia di ricominciare da zero.

La leggenda nera dei brogli pro-repubblicani è destinata a rimanere leggenda. Nessuno poté dimostrare allora la sua fondatezza, né tantomeno può farlo adesso. Il fatto è che la Repubblica ormai era nell’ordine delle cose. Non tanto perché la volevano gli Americani (più che altro per imprinting culturale, essendo figli a loro volta di una rivolta contro una Monarchia, quella inglese che adesso avrebbe volentieri salvato la corona ai cugini Savoia, non foss’altro perché a Londra si temeva per l’Italia un destino simile a quello della Grecia, dove la guerra civile si protrasse fino al 1949 per la presenza di un forte partito comunista). Erano gli italiani a sentirne il bisogno, non tanto per una questione funzionale quanto per una questione simbolica. Era, o poteva essere, il valore fondante attorno a cui ricompattarsi e da cui ripartire.

Giuseppe Conte

Settantaquattro anni dopo, possiamo constatare – con onestà intellettuale prima di tutto verso noi stessi – che non è andata così. Le istituzioni repubblicane fanno acqua da tutte le parti, prima di tutto perché ha fatto acqua la nostra coscienza morale di cittadini, incapaci di sceglierci da un lato rappresentanti che non siano altrettanto immorali e dall’altro di dotarci di istituzioni e ordinamenti giuridici che funzionino.

Al Quirinale c’é ancora uno Sciaboletta. A differenza del predecessore, che parlava poco e per di più in dialetto piemontese ma che si faceva sentire per quello che faceva o mancava di fare, questo di adesso ha la stessa presenza scenica, la stessa insostenibile mancanza di carisma e di rappresentatività, la stessa dubbia moralità (intesa, sia chiaro, in senso assolutamente politico), ma in compenso ha una loquela, una logorrea, una retorica capace di travolgere tutto e tutti, a cominciare da quel poco di sentimento nazionale repubblicano e democratico che, come l’erba che spunta dalle crepe del cemento, sopravvive nella nostra comunità nazionale.

A differenza dello Sciaboletta proveniente dal Rgno di Sardegna, quello che viene dal Regno delle Due Sicilie di decisioni drammaticamente storiche non ne prende (è piuttosto un lavoratore dietro le quinte, da quando affossò il sistema elettorale maggioritario a quando ha affossato il voto popolare del 4 marzo 2018) ma in compenso di discorsi ne fa tanti, e almeno fosse dotato – ahilui e ahinoi – di un timbro di voce e di una vis retorica non diciamo ciceroniana ma almeno più sopportabile all’udito.

Giorgia Meloni e Matteo Salvini

L’unica volta che Sciaboletta 2.0 tace, è proprio quando dovrebbe parlare. Il colpo inferto a ridosso di questo 2 giugno alla Repubblica (non il giornale, per carità, che per chi scrive vale poco anche come incarto di verdure, pesce, o altri generi alimentari, ma la nostra forma di governo) dalla magistratura che di ordinario non ha più nulla – simbolicamente rappresentato dal lombrosiano Palamara, lui sì degno di Shakespeare, come uno Jago se non altro – potrebbe essere mortale.

Mattarella stavolta parla tardi, parla poco, parla male. Il 2 giugno poi di lui si perdono le tracce. E forse è meglio così. Roma è piena di gente variopinta e per una volta accomunata da un sentimento condiviso: l’incazzatura. Al termine della primavera del Coronavirus, della grave ed ingiustificata limitazione delle libertà costituzionali, della cassa integrazione a zero euro statali, delle multe dispensate da vigili urbani poco edotti manco fossero l’esercito di Franceschiello o quello del re Bomba o del citato Bava Beccaris, forse è meglio che le istituzioni in generale tengano il profilo più basso possibile.

A questa variopinta umanità (a cui si aggiungono in extremis nuove forme di protesta organizzata, come le mascherine tricolori e i gilet arancioni del generale Pappalardo) cerca di dare in qualche modo sistema il centrodestra. Che nella primavera che sta per concludersi è stato quantomeno titubante per quanto la maggioranza di governo è stata arrogante. In attesa di sapere se è stata vera pandemia e se ha valso la pena di tutto ciò che è stato fatto o disfatto, l’unico dato certo è che questo paese non ha più una economia competitiva né una Costituzione funzionante.

Salvini e la Meloni sono due bravi ragazzi, ottimi leaders per il tempo di pace. Ma qui, a partire da febbraio scorso, se non ce ne siamo accorti siamo stati e siamo tuttora in guerra, e c’é da chiedersi se a vincerla basteranno le adunate tricolori di Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia. Sensazione nostra è che con queste forme di protesta Maria Antonietta avrebbe potuto mangiare le sue brioches per lungo tempo ancora, in quella tarda primavera del 1789 che andò poi a finire come tutti sappiamo.

E Sciaboletta? Tace, ed è già un sollievo. Ma ci sarebbe un gran bisogno di rappresentatività. Quando invece un sistema democratico – o presunto tale – la perde, la parola o prima o dopo passa a nuovi e più efficaci controllori della piazza. E’ già successo, con ogni probabilità risuccederà.

Disgraziata la Patria che ha uomini politici e rappresentanti delle istituzioni come questi, parafrasando Brecht. E disgraziati i cittadini che per quanto si incavolino – ma solo quelli che non godono di rendita di posizione, di cittadinanza o di altre prebende clientelari, che pure non sono pochi -, o sono troppo distratti da falsi miti non ancora erosi dalla crisi economica che ancora deve manifestarsi in tutta la sua potenza di fuoco, o non riescono a trovare quei valori comuni e fondanti di cui si parlava all’inizio.

A meno che non lo diventi la fame. E allora il discorso cambierebbe radicalmente.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

Lascia un commento