Arrivarono da est, senza avere la più pallida idea di quello che avrebbero trovato. Gli uomini dell’Armata Rossa che la mattina del 27 gennaio 1945 entrarono nel campo di concentramento polacco di Oswiecim, in tedesco Auschwitz, erano temprati dagli orrori di tre anni e mezzo di guerra contro la Wehrmacht di Hitler e contro le SS, ma quello che si trovarono davanti superava ogni immaginazione. Di oltre un milione di prigionieri internati nel campo dai tedeschi a partire dal 14 giugno 1940, ne sopravvivevano soltanto 7.000, e in condizioni che solo pochi geni come Primo Levi o Steven Spielberg hanno saputo descriverci. E che solo il ricordo dei pochi rimasti in vita e giunti fino al nostro tempo può testimoniare.
Era nato come tanti altri, il campo di Auschwitz, sulla spinta del desiderio di Heinrich Himmler e di altri gerarchi nazisti di compiacere il Fuhrer e di avviare a soluzione finale quello che egli stesso aveva individuato come il problema principale della Nuova Germania del Terzo Reich: il problema ebraico. Già prima che nel 1942 a Wansee presso Berlino una conferenza di esponenti del Nazismo desse forma sistematica allo sterminio del popolo ebraico e degli altri dissidenti antinazisti affidando a tecnici come Adolf Eichmann l’organizzazione della soluzione finale attraverso l’impiego del famigerato gas Zyklon B (già sperimentato con successo nelle trincee della Prima Guerra Mondiale) e dei forni crematori, il campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau era diventato il più importante della fabbrica della morte, il più emblematico di quella banalità del male (secondo l’efficace definizione di Hannah Arendt) che l’essere umano concepì contro se stesso in quegli anni.
Simboleggiata con agghiacciante efficacia da quella scritta di metallo sul cancello d’ingresso del campo alla fine del binario ferroviario su cui arrivavano i vagoni piombati da tutta Europa, che tutti hanno impressa nella memoria per esserci stati e averla vista in pellegrinaggi angoscianti o in foto e film capaci di rinnovare l’orrore: Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi.
Le larve umane che i soldati russi si trovarono di fronte al pari di altri soldati di vari eserciti che stavano occupando in quei giorni territori già sotto il controllo dei tedeschi e campi di lavoro simili a quello di Auschwitz, testimoniano da allora fino a che punto può arrivare quella che i Nomadi avrebbero chiamato giustamente la belva umana, nella loro canzone. Quel male la cui quotidianità e banalità Primo Levi avrebbe efficacemente raccontato nel suo diario-capolavoro, Se questo è un uomo. O che Shlomo Venezia avrebbe ritratto fin nei particolari dell’abominio nel suo libro di memorie Sonderkommando Auschwitz.
Non è un caso che la data del 27 gennaio sia stata scelta dalla Germania prima e dalle Nazioni Unite poi come Giornata della Memoria, e il campo di concentramento stesso sia stato dichiarato dall’Unesco nel 1979 patrimonio dell’umanità. Di tutti gli orrori perpetrati dall’uomo contro i suoi simili nel corso della sua storia, Auschwitz in qualche modo è riuscito ad essere la manifestazione più eclatante.
Dal 1945 ad oggi, il Male si è incarnato ancora tante volte. La tragedia della fine del colonialismo in Africa e Asia, il Vietnam, la Cambogia, l’Afghanistan, l’Iran, i paesi sottratti al giogo nazista solo perché si ritrovassero sotto quello sovietico, il Medio Oriente stretto tra intolleranza araba per la riparazione decisa dal mondo verso il popolo ebreo (lo Stato di Israele) e intolleranza israeliana verso chi si riteneva popolo altrettanto eletto, il Ruanda degli Utu e Tutsi, l’America Latina e le dittature feroci quanto quella di Hitler, Pol Pot, Saddam Hussein, Ceausescu, Kim Il Sung, Videla, Pinochet…. quanto ha avuto da piangere la nostra coscienza?
Sono passati 75 anni. Il Male ha ancora una banalità che la nostra mente stenta a comprendere, e ancor più a controllare. I treni della memoria partono annualmente da tutta Europa verso Auschwitz-Birkenau.
Qualcuno ancora va a farsi stringere il cuore sul luogo dello sterminio elevato a industria e sistema. Qualcuno pensa che adesso questi treni dovrebbero partire per le più svariate località, perché ormai sono pochi i luoghi della terra rimasti scevri da orrori paragonabili all’Olocausto.
Ci sono delle parole che a distanza di tanti anni restano ineguagliate per esprimere i sentimenti che suscita la Giornata della Memoria, anche aggiornata ai tempi recenti.
Le prime sono quelle di Primo Levi, nell’incipit del suo libro, Se questo è un uomo:
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare Vuoti gli occhi e freddo il grembo Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato: Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via, Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
Le altre sono scritte nel Talmud, ma passano bene in qualunque altra religione, o coscienza civile, soprattutto in un’epoca che a volte sembra dirigersi di gran carriera verso nuove tragedie, perché dalla storia nessuno impara mai:
Chi salva una vita, salva il mondo intero.
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